Rio de Janeiro balla con Lula

Di Stefanini Maurizio
22 Agosto 2002
Brasile. Si vota ad ottobre. La sinistra andrà al potere. Il nuovo Presidente sarà Lula. L’anima di Porto Alegre. Il no global. Pardon, l’american boy

Guy Verhofstadt, divenuto primo ministro belga non ancora quarantenne l’11 luglio 1999, è liberale, di un partito liberale però neofita del “progressismo”, con una certa tendenza del suo esecutivo a strafare (come si è visto dalle continue gaffes anti-Berlusconi e anti-Haider del suo ministro degli Esteri, Louis Michel). Forte di questa sua aggressiva immagine, Verhofstadt ha cercato dunque di andare al Forum di Porto Alegre, nuova grande kermesse del progressismo globale. Ma quando gli organizzatori hanno letto sulla sua scheda di adesione la parola “liberale”, è scattato l’anatema. «Liberale significa neoliberale, e neoliberale nemico del popolo». Al premier belga Guy Verhofstadt, dunque, il popolo di Porto Alegre ha rifiutato l’ingresso.

Lula, lotta (e mazzetta) continua
Una giusta nemesi, si sarebbe tentati di commentare. Senonché, nemesi nella nemesi, il diavolo liberale che gli organizzatori di Porto Alegre hanno cercato di esorcizzare se lo ritrovano ora in casa propria. Luis Inacio da Silva “Lula”, l’ex-metalmeccanico e sindacalista fondatore e leader carismatico di quel Partito dei Lavoratori (Pt) che ha inventato, ospitato e gestito il Forum di Porto Alegre, nella sua quarta candidatura alla presidenza del Brasile dopo tre secondi posti consecutivi si è ora preso ufficialmente come compagno di formula per la vicepresidenza un industriale ed esponente di un partito che si chiama “liberale” proprio come quello di Verhofstadt, e che forse è anzi anche più a destra: è il senatore José Alencar, il più grande industriale tessile del Brasile. E il bello è che Lula lo ha corteggiato per ben quattro mesi, prima di ottenerne il sospirato sì! Poiché l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù, la notizia andrebbe divulgata con maggior decisione tra quell’informe galassia no global che continua a bearsi di Forum Sociali e “altri mondi possibili”, senza rendersi conto come il celebratissimo Pt non sia altro che una tranquillissima forza socialdemocratica. Come il vecchio Pci prima della Bolognina, puntigliosissimo nel rispettare antichi rituali di palingenesi rivoluzionaria, ma in realtà attentissimo ad amministrare al meglio possibile l’esistente con un pragmatico approccio keynesiano, e che se poi si possono fare un po’ di affari con gli imprenditori “sani” (leggi: quelli amici dei “politici progressisti”) tanto meglio.
Semmai, come appunto nel caso del vecchio Pci, l’unico problema è nella tendenze, a volte, di andare oltre certi limiti, in questo affarismo di per sé pienamente legittimo. E lo si è visto con lo scandalo che, proprio mentre Lula presentava il suo nuovo braccio destro (in tutti i sensi!), è divampato attorno a Celso Daniel: proprio lo stesso “sindaco martire” del Pt assassinato in concomitanza con l’ultimo appuntamento di Porto Alegre, e lì celebrato con commozione da tutti. Ebbene, proprio il fratello del defunto ha rivelato che Daniel, coordinatore della campagna elettorale del Pt, era anche l’uomo che raccoglieva le mazzette degli imprenditori alle giunte locali del partito. Nella sola Santo André, il sobborgo della grande San Paolo di cui Daniel era sindaco, gli inquirenti hanno stimato che il valore delle tangenti era pari ad almeno 7 milioni di dollari. E di 450.000 di questi c’è prova che sono stati versati da José Dirceu, deputato Pt che è un altro cervello della campagna di Lula.

Lula o non Lula, il Brasile “assaggerà” la sinistra
Evidentemente, queste rivelazioni non hanno fatto troppo bene all’ex-metalmeccanico. Prima dello scandalo, tutti i sondaggi davano a Lula la certezza della vittoria. Adesso Lula rischia di più. Ma è comunque l’ora della sinistra, in quella che è la quarta democrazia del mondo per numero di elettori, dopo India, Stati Uniti e Indonesia. Tutti e quattro i candidati per il voto di ottobre hanno questa etichetta, e in fondo è logico, in un Paese in cui la sinistra non ha governato mai. Dei quattro candidati alla Presidenza della Repubblica, va detto, uno è di sinistra solo di etichetta. José Serra, ex-ministro della Sanità e delfino ufficiale del presidente uscente Fernando Henrique Cardoso, appartiene infatti al Partito della Socialdemocrazia Brasiliana (Psdb) dello stesso Cardoso, che per un po’ è stato considerato un possibile partner nel progetto di Ulivo Mondiale, ma che ha infine risposto al recente appello del premier spagnolo José María Aznar ad aderire all’internazionale ex-dc, dopo la sua recente apertura ai partiti centristi e moderati anche di matrice non confessionale. Accanto al “lavoratore” Lula e al “socialdemocratico” Serra c’è poi Ciro Gomes, anche lui ex-ministro di Cardoso e uomo del Psdb, che ha però rotto col presidente già alle scorse elezioni, dove prese il 10%, e ci riprova ancora alla testa di un “Fronte Laburista” in cui stanno il Partito Popolare Socialista (Pps), il Partito Laburista Brasiliano (Ptb) e il Partito Democratico Laburista (Pdb). Il primo è il nuovo nome assunto dal vecchio Partito Comunista dopo la sua locale Bolognina; gli altri sono le due fazioni in cui si sono divisi i nostalgici di Getulio Vargas, il caudillo che agitò la vita politica del Brasile tra anni ’30 e ‘50: iniziò con l’etichetta di liberale, poi tentò di costruire uno “Stato Nuovo” ispirato al modello mussoliniano (con tanto di leggi razziali), dopo ancora prese l’etichetta di socialdemocratico, continuò trattando con l’argentino Perón e il cileno generale Ibañez la costruzione di un modello “Abc” (Argentina Brasile Cile) di peronismo continentale, e finì suicidandosi, da presidente in carica, in seguito a uno scandalo. Se si aggiunge che il Pdb è l’unico socio ufficiale dell’Internazionale Socialista, si ricostruisce il quadro curioso di un blocco tra ex-comunisti ed ex-fascisti che propone ai brasiliani il futuro radioso della Terza Via!
Il quarto candidato, l’ex-governatore Anthony Garotinho di Rio de Janeiro, dopo essere transitato per Pt e Pdb ed aver litigato con i rispettivi due padri padroni, prima Lula e poi Leonel Brizola, corre ora da solo, alla testa di un piccolo Partito Socialista (Psb). Il 10-12% di cui è accreditato è molto di più del serbatoio elettorale del Psb, ma evidentemente non basta ad andare oltre un successo di immagine. Gomes, invece, non solo ha ora sorpassato nei sondaggi Serra, con il 22% contro il 15%, ma è stato addirittura indicato come vincitore di un secondo turno con Lula. «Se vince Serra sarà un grande presidente, ma nell’attesa è un pessimo candidato», ha riconosciuto Cardoso, che ha addirittura consultato un pool di giuristi per sapere fino a che punto può scendere in piazza ad appoggiare il suo pupillo senza mancare ai suoi doveri di imparzialità come capo dello Stato. Se si ripresentasse lui non avrebbe problemi, ma la Costituzione inibisce una terza candidatura…

L’amico amerikano
Nella corsa a tre tra Lula, Gomes e Serra, comunque, non è affatto Lula la bestia nera di americani e Fmi. Da un po’ di tempo a questa parte, infatti, Cardoso e Bush litigano un po’ su tutto: il Brasile critica il “Plan Colombia” voluto dagli americani contro la guerriglia delle Farc; ha appoggiato Chávez in Venezuela; ha sostenuto in Perù Fujimori quando gli americani sponsorizzavano Toledo; ha appoggiato con l’India posizioni nettamente anti-yankee all’Organizzazione Mondiale della Sanità a proposito di brevetti; ha criticato l’“inerzia” Usa di fronte alla crisi argentina; ha subito una guerra commerciale su acciaio, zucchero e succhi di frutta. E quanto a Gomes, sta portando avanti tesi su ristrutturazioni del debito pubblico e moratorie che fanno rizzare i capelli al Fondo Monetario Internazionale. Da una parte, dunque, l’ambasciatrice americana Donna Hirak ha fatto sapere con gran rumore che lei vede con favore una vittoria di Lula. Dall’altra, l’Fmi ha fatto sapere che «tra Lula e Gomes è meglio Lula».
Se si pensa alla possibilità di prossimi interventi militari Usa anti-narcos e anti-coca sulle Ande, se si pensa a quella proposta in agenda di costituzione di una zona di integrazione continentale entro il 2004 con Cardoso che sostiene invece l’opportunità di un’area di libero scambio limitata ai soli latino-americani, lo scenario sembra simile a quello della guerra del Kosovo in Italia. Allora, fu una manovra dell’“amerikano” Cossiga contro Prodi a mettere alla presidenza del Consiglio Massimo D’Alema: ex-Pci, anzi il primo ex-Pci della storia a sedersi a Palazzo Chigi, e dunque disposto come nessuno a offrire basi senza discutere alla prima guerra della storia della Nato per accreditare la propria “affidabilità atlantica”.
Lula come D’Alema, Alencar come Cossiga? Chissà. Certo, anche su questo ci sarebbe materia di dibattito, per gli adoratori del mito di Porto Alegre.

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