Referendum: le posizioni dei partiti tra ipocrisie e silenzi interessati

Di Emanuele Boffi
03 Giugno 2011
Antonio Di Pietro per i quattro sì, ma da ministro era meno ideologico. Il Pd vuole solo dare una spallata a Silvio Berlusconi, ma la sua parte più riformista è contraria alla consultazione. Le difficoltà del Pdl, i calcoli di Pier Ferdinando Casini e l'assurda posizione di Gianfranco Fini e Futuro e libertà

Quali indicazioni hanno dato i partiti per i referendum del 12 e 13 giugno? Vediamole in sintesi.

ITALIA DEI VALORI. Il partito di Antonio Di Pietro è quello più graniticamente schierato per i quattro sì. Di Pietro, come rivendica legittimamente in questi giorni, è il leader che, sin da subito raccogliendo le firme necessarie, ha creduto nei referendum, anche quando la sua iniziativa era malvista dai suoi stessi alleati (in particolare dal Pd). In un’intervista apparsa ieri, l’ex pm ha parlato della necessità di “de-dipietrizzare” e “de-berlusconizzare” il voto. La strategia è chiara: per raggiungere il quorum occorre «rivolgersi anche agli elettori di destra».

In realtà, come è facile intuire, i referendum hanno l’esatto scopo opposto, e cioè quello di dare una nuova “botta” al capo del governo dopo i ballottaggi milanese e napoletano. Il Fatto quotidiano, ad esempio, solo ieri chiamava a raccolta la sinistra, dando al voto il vero e unico senso che ha: “Liquidiamolo”. Da sottolineare, dato che sui giornali la questione è poco evidenziata, che quando Di Pietro era ministro delle Infrastrutture del governo Prodi si era distinto per una linea molto pragmatica e, in un certo senso, in contrasto con quelle forze capaci solo e sempre di dire “no” a qualsiasi tipo di innovazione.

PD. L’indicazione è tutti a votare per il sì. Al di là di proclami sulla necessità di “ragionare sul merito”, anche alla segreteria Bersani il voto è utile in un’ottica puramente antiberlusconiana. Tuttavia proprio Bersani – che sull’immagine “dell’uomo delle liberalizzazioni” ha costruito la propria fortuna – ha sempre avuto sull’acqua una posizione alquanto “laica” e pragmatica, lontano dagli slogan che, invece, oggi si sentono ripetere nelle piazze. Come lui, anche altri esponenti di primo piano del Pd – Enrico Letta e Sergio Chiamparino, per esempio, ma anche molti altri – hanno sempre evitato di fare sul tema proclami ideologici. C’è, insomma, una larga fetta del partito – quella più riformista – che oggi è in grave imbarazzo, costretta a fare la capriola pur di dare un’altra spallata al governo.

LEGA. Umberto Bossi ha detto che il referendum sull’acqua è intrigante. Il sindaco di Varese, Attilio Fontana, ha detto che sul tema andrà a votare sì. Tali dichiarazioni si spiegano, da un lato, con la necessità di solleticare la pancia di quegli elettori leghisti avvezzi a votare secondo schemi logici alquanto semplificati (sì/no), dall’altra, per il fatto che con il “sì”, soprattutto per quanto riguarda l’acqua, il potere decisionale sulla gestione delle risorse rimarrebbe in mano ai sindaci. Cioè, in sintesi e semplificando, anziché dal mercato la faccenda sarebbe gestita da quel piccolo Stato che è il Comune.

Il fatto curioso – e che i leghisti dovrebbero spiegare ai loro elettori – sono le parole riportate ieri sul Sole 24 Ore da Massimo Garavaglia. Garavaglia è il vicepresidente leghista alla commissione Bilancio del Senato, lo snodo più importante dove sono passate tutte le norme in materia di acqua e affini. Ha detto Garavaglia: «Il quesito referendario è posto male e da quell’impostazione ne deriverà un irrigidimento su tutta la normativa che riguarda i servizi pubblici locali costringendo alla gestione in house. Tra l’altro credo che difficilmente la nuova versione possa essere accolta da Bruxelles».

PDL. si chiama libertà di voto, ma va letta come un invito all’astensione. Il timore è che il quesito sul nucleare “trascini al quorum” anche gli altri, e quindi un inevitabile nuovo referendum su Silvio Berlusconi (che altro è, altrimenti, il quesito sul legittimo impedimento?). Il tentativo di disinnescare quello sul nucleare è andato a vuoto e ora il timore di subire una nuova batosta è forte. Tra l’altro, il recente voto in Sardegna sul nucleare con quorum raggiunto e “no” a valanga spiega perché i timori siano fondati. D’altro canto, soprattutto i leader locali – il governatore Cappellacci in particolar modo -, sono antinuclearisti perché temono che le centrali siano poi erette sul loro territorio.

TERZO POLO. Pier Ferdinando Casini è sempre stato un convinto nuclearista e nell’Udc si ha abbastanza esperienza politica per sapere che i “sì” sono una disdetta. Però si tace, perché troppo forte è la tentazione di dare un nuovo colpo alla maggioranza.

Ancora più ipocrita la posizione di Fli, che ha in un suo esponente – Andrea Ronchi – il promotore, con Raffaele Fitto, della riforma sulla gestione dell’acqua. Fini, però, ha detto di «andare a votare», anche se non ha detto “cosa”. Mossa che ha ben poco di innocente: far raggiungere il quorum serve a far prevalere i sì.

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