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Perché il referendum sulla cannabis libera può essere dichiarato inammissibile

Leggere il testo unico sugli stupefacenti per trovare buone ragioni di inammissibilità del quesito. L'intervento del presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino

Pietro Dubolino
28/01/2022 - 6:20
Giustizia
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Referendum cannabis
Consegna in Cassazione delle firme per il referendum per la Cannabis Legale, in foto la scatola che contiene le firme digitali, Roma 28 ottobre 2021. ANSA/FABIO FRUSTACI

Articolo tratto dal Centro Studi Livatino – Il 15 febbraio la Corte costituzionale è chiamata a decidere, fra l’altro, sulla ammissibilità dei quesiti referendari in tema di omicidio del consenziente e di abrogazione parziale di sanzioni penali e amministrative in tema di droga (su cui si può approfondire qui e qui). Mentre sul merito del referendum sulla droga si può leggere questo commento, con l’intervento che pubblichiamo oggi il presidente emerito di sezione della Cassazione Pietro Dubolino espone le ragioni di non ammissibilità del quesito, alla luce di una lettura d’insieme del teso unico sugli stupefacenti.

1. La proposta di referendum abrogativo in materia di stupefacenti, sulla cui ammissibilità dovrà pronunciarsi la Corte costituzionale all’udienza del 15 febbraio, investe, per quanto riguarda le sanzioni penali, i commi 1 e 4 dell’art. 73 del Testo Unico emanato con DPR n. 309/1990, quale attualmente vigente a seguito di ripetuti interventi della Corte costituzionale e del Legislatore. In particolare, si propone l’eliminazione, nel comma 1, della parola “coltiva” e, nel comma 4, delle parole “la reclusione da due a sei anni e”. 
Il comma 1 elenca una serie di condotte (tra le quali, appunto, la coltivazione) per le quali, quando abbiano ad oggetto sostanze stupefacenti comprese nella tabella I allegata al citato DPR (c.d. “droghe pesanti”), viene stabilita la pena della reclusione da sei a venti anni, più una multa.  Il comma 4 richiama le stesse condotte previste dal comma 1 per stabilire che, quando le stesse abbiano a oggetto sostanze comprese nelle tabelle II e IV (c.d. “droghe leggere”), si applichi la pena della reclusione da due a sei anni unitamente, anche in questo caso, ad una multa in misura ridotta rispetto a quella prevista dal comma 1.

2. E’ bene mettere subito in luce che la proposta referendaria non tocca gli articoli 26 e 28 del Testo unico, il primo dei quali vieta la coltivazione delle piante comprese tanto nella tabella I (coca e papavero da oppio) quanto nella tabella II (cannabis) ed il secondo prevede che chi coltivi, senza autorizzazione, le suddette piante incorra nelle stesse “sanzioni penali ed amministrative stabilite per la fabbricazione illecita  delle sostanze stesse”. Tra le condotte penalmente sanzionabili previste dal comma 1, e richiamate dal comma 4 dell’art. 73 del Testo unico vi è anche quella costituita appunto dalla “fabbricazione” delle sostanze in questione.
L’eventuale approvazione della proposta referendaria comporterebbe quindi, con ogni evidenza, che la coltivazione non autorizzata, tanto della coca e del papavero da oppio quanto della cannabis, continuerebbe comunque ad essere penalmente sanzionata, con la differenza, però, che mentre per la coca ed il papavero la sanzione rimarrebbe quella della reclusione unita alla multa, quale prevista dal comma 1 dell’art. 73 del Testo unico, per la cannabis, soggetta alle previsioni del comma IV, rimarrebbe invece applicabile la sola multa. E sempre con la sola multa risulterebbero punibili tutte le altre condotte (produzione, fabbricazione, cessione, vendita, commercio, distribuzione, etc.) previste dal comma 1 e richiamate in blocco dal comma 4, quando avessero ad oggetto non solo la cannabis ed i suoi derivati, di cui alla tabella II, ma anche le altre sostanze stupefacenti, di tipo sintetico, elencate nella tabella IV.

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3. Appare francamente difficile pensare che un tale assetto normativo possa essere ritenuto conforme alle più elementari esigenze di ragionevolezza e, prima ancora, di semplice buon senso. Basterebbe considerare, per esempio, che mentre nel caso di condotte aventi a oggetto “droghe pesanti”, pur quando esse fossero di minima entità e tali quindi, da dar luogo alla speciale attenuante del c.d. “caso lieve”, prevista dal comma 5 dell’art. 73 del Testo unico, sarebbe sempre applicabile la pena della reclusione nel minimo di sei mesi, nel caso invece di condotte aventi ad oggetto “droghe leggere” sarebbe sempre e comunque applicabile la sola multa, quale che fosse la loro gravità nel caso specifico e, quindi, anche quando sussistessero una o più delle aggravanti previste dall’art. 80 del Testo unico quali, ad esempio, l’ingente quantitativo ovvero la consegna della droga a soggetti di età minore o in prossimità di istituti scolastici. Tali aggravanti danno luogo, infatti, solo ad aumenti della stessa pena prevista per il reato base, e non all’applicazione di una pena di specie diversa e più grave, fatta eccezione per il solo caso in cui, trattandosi di quantità ingente, sussista anche l’ipotesi di cui alla lett. e) del citato art. 80 (adulterazione o commistione delle sostanze in modo che ne risulti accentuata la potenzialità lesiva).

Per converso, la suddetta attenuante speciale del “caso lieve” non potrebbe più trovare applicazione con riguardo a condotte aventi a oggetto le “droghe leggere” perché, essendo esse divenute punibili, di regola, con la sola multa, il suo riconoscimento darebbe luogo alla paradossale conseguenza per cui diventerebbe invece applicabile anche la reclusione. Il citato comma 5 dell’art. 73 del Testo unico, infatti,  si riferisce indistintamente a tutte le ipotesi di reato previste dai commi precedenti, ivi comprese, quindi, quelle di cui al comma 4, e stabilisce che esse siano punite, se riconosciute, appunto, di “lieve entità”, con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni, più una multa.

Peraltro, restando comunque penalmente illecita, pur se punibile con la sola multa, anche la coltivazione non autorizzata della cannabis, risulterebbe frustrato proprio l’obiettivo che, nella propaganda corrente a favore della proposta referendaria, viene presentato come essenziale ed, anzi, unico: quello, cioè, di liberalizzare la sola coltivazione della “cannabis” ad uso personale, lasciando fermo l’apparato sanzionatorio previsto per tutte le altre condotte attualmente previste come reato. Ed è, al riguardo, da segnalare che già ora, secondo il più recente ed autorevole orientamento della Corte di cassazione, quale espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12348/2019, la coltivazione della cannabis non costituisce reato quando essa, “in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto”.

In pratica, quindi, l’esito positivo del referendum, per un verso,  poco o nulla gioverebbe alla posizione di colui che, limitandosi alla coltivazione, in ambito domestico, di poche piante di “cannabis” ad uso esclusivamente personale, già ora potrebbe facilmente andare del tutto esente da pena; per altro verso, risulterebbe invece enormemente avvantaggiata la posizione di chi, ad esempio,  volendo dedicarsi alla coltivazione massiccia della “cannabis”, come pure alla commercializzazione dei relativi prodotti, anche su scala industriale, altro non rischierebbe se non l’applicazione di una multa e non anche, come oggi avviene, quella della reclusione.

4. Vi è dunque da chiedersi, a questo punto, se, nella prospettiva delle innegabili aporie ed incongruenze dalle quali risulterebbe caratterizzato, per quanto sopra detto,  l’assetto della normativa penale in materia di sostanze stupefacenti nel caso di approvazione della proposta referendaria, questa possa essere tuttavia ritenuta ammissibile dalla Corte costituzionale. La risposta dovrebbe essere negativa.

Se è vero, infatti, che la Corte costituzionale ha avuto più volte occasione di affermare che non costituisce, di per sé, motivo di inammissibilità di una proposta referendaria il solo fatto che la sua eventuale approvazione darebbe luogo a discrasie nella normativa di risulta, è altrettanto vero che tale affermazione risulta basata sul presupposto che tali discrasie possano essere rimosse mediante semplici interventi correttivi, integrativi o modificativi di detta normativa da parte del legislatore ordinario (ved., ad esempio, in tal senso, Corte cost. n. 1/2014, con richiamo anche a Corte cost. n. 32/1993),  laddove, nel caso in questione, sarebbe invece necessaria una pressochè completa rivisitazione di tutto l’apparato sanzionatorio posto a presidio delle varie e distinte condotte previste dall’art. 73 del Testo unico.

Giova, in  proposito, richiamare la sentenza n. 46/2003 con la quale la Corte costituzionale dichiarò inammissibile una proposta di referendum abrogativo di talune disposizioni contenute nella legge n. 283/1962 sulla tutela della genuinità delle sostanze alimentari osservando che la sua eventuale approvazione avrebbe dato luogo a contrasto, nella normativa di risulta, con le previsioni di cui agli art. 444 e 516 del codice penale ed all’art. 19 del D.L.vo n. 194/1995 in materia di immissione in commercio  di prodotti fitosanitari. Ciò sulla scorta del principio, già affermato in altre, richiamate sentenze della stessa Corte, secondo cui non può ritenersi ammissibile una proposta referendaria quando con essa si tenti, “attraverso l’operazione di ritaglio sulle parole ed il conseguente stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, di introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento, ma anzi del tutto estranea al contesto normativo” .

5. Un’altra e diversa ragione di inammissibilità della proposta in questione potrebbe derivare dalla sua contrarietà a quanto previsto dalle Convenzioni internazionali in materia di stupefacenti e, segnatamente, dalla Convenzione di New York del 30 marzo 1961, resa esecutiva in Italia con legge n. 412/1974, cui fecero seguito, senza però abrogarla, la Convenzione di Vienna del 21 febbraio 1971, resa esecutiva in Italia con legge n. 385/1981, e la Convenzione di Vienna del 20 dicembre 1988, resa esecutiva in Italia con legge n. 328/1990. Stabilisce, infatti, l’art. 36 della prima di dette Convenzioni che le condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti (ivi compresa, pacificamente, la cannabis), qualora ritenute “gravi”, siano passibili “di una pena adeguata, in particolare di pene che prevedono la reclusione o altre pene detentive”, con la sola eccezione costituita dalla possibilità di sostituire alla condanna penale o alla sua esecuzione, per quanti siano semplici utilizzatori di dette sostanze, l’applicazione di “misure di cura, correzione, postcura, riabilitazione e reinserimento sociale conformemente alle disposizioni dell’articolo 38 paragrafo 1”. Proprio in considerazione di tale disposizione la Corte costituzionale, con sentenza n. 30/1981, ebbe a dichiarare inammissibile la proposta di referendum abrogativo dell’allora vigente legge n. 685/1975 in materia di stupefacenti nelle parti in cui prevedeva la rilevanza penale di condotte aventi ad oggetto la cannabis o i suoi derivati, osservando che: “la abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario in esame, con il sottrarre ai previsti controlli la coltivazione, il commercio, la detenzione e l’uso della canapa indiana e dei suoi derivati, concreterebbe una esplicita ed inequivocabile violazione degli obblighi al riguardo assunti dallo Stato italiano con l’adesione senza riserve alla Convenzione unica sugli stupefacenti, adottata a New York il 30 marzo 1961, ed al Protocollo di emendamento adottato a Ginevra il 25 marzo 1972, esponendo lo Stato medesimo alle misure in detti accordi contemplate ed alle responsabilità verso le altre Parti contraenti e verso l’Organizzazione delle Nazioni Unite, competente in materia di controllo internazionale degli stupefacenti”.
Vero è che la proposta referendaria sulla quale dovrà ora pronunciarsi la Corte costituzionale, a differenza di quella che aveva formato oggetto della citata sentenza n. 30/1981, non comporta, come in precedenza illustrato, la totale depenalizzazione delle condotte aventi ad oggetto la cannabis ed i suoi derivati ma soltanto l’esclusione della loro punibilità con la pena detentiva, ferma restando quella pecuniaria; il che sembrerebbe escludere, a prima vista, il contrasto con l’impegno derivante dalla Convenzione internazionale. Ma il contrasto riemerge, invece, ove si consideri che, come pure in precedenza illustrato, l’esclusione della pena detentiva opererebbe anche nel caso in cui le condotte in questione fossero aggravate per la presenza di taluna delle circostanze previste dall’art. 80 del Testo unico, o anche per la presenza di altre e diverse aggravanti, e dovessero, quindi, necessariamente, essere qualificate come “gravi”, realizzando così la condizione che, ai sensi del citato art. 36 della Convenzione, dovrebbe dar luogo all’applicazione della pena detentiva.

Né, d’altra parte, potrebbe farsi leva, per eliminare il contrasto, sulla possibilità, prevista dallo stesso art. 36, di sostituire la condanna o la sua esecuzione con taluna delle misure di recupero ivi menzionate. A parte, infatti, la considerazione che tale possibilità è prevista soltanto per gli utilizzatori delle sostanze stupefacenti, per cui essa non potrebbe comunque essere evocata quando le condotte illecite siano poste in essere da soggetti diversi, vi è poi da dire che, anche nel caso degli utilizzatori, l’applicabilità di misure curative e di recupero sociale in luogo della sanzione penale presuppone, nell’ordinamento italiano (ved. in particolare, gli art. 90-94 del Testo unico), che essi, oltre ad essere qualificabili come “tossicodipendenti”, siano stati condannati ad una pena detentiva; il che, in caso di ritenuta ammissibilità e, poi, di approvazione della proposta referendaria, non potrebbe più avvenire.

Tags: cannabisreferendum cannabis
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