«Vittima di razzismo alla partita». Tutti le credono, soprattutto i giornali, ma non è vero
Lo scorso 26 agosto, la pallavolista Rachel Richardson è scesa in campo nella sfida in trasferta tra la sua Duke University e la Brigham Young University (BYU), dello Utah. Unica giocatrice nera del quintetto iniziale, la Richardson ha raccontato che durante tutta la partita il pubblico di casa l’ha insultata coprendola di insulti razzisti.
«Insultata e minacciata perché nera»
A renderlo noto è stata la sua madrina, l’avvocato Lesa Pamplin, non presente all’incontro, che con un tweet il giorno dopo ha denunciato il fatto che Rachel fosse stata chiamata “negra” ogni volta che andava in battuta, minacciata in particolare da un “maschio bianco” mentre andava verso il pullman della squadra, e che un poliziotto si sia dovuto mettere accanto alla panchina della Duke.
Il tweet è rimbalzato ovunque, ha raccolto 185.000 “mi piace”, è stato notato anche da LeBron James, che ha risposto dicendo a Rachel di essere orgogliosa del colore della sua pelle, parlando di “fratellanza nera” e dicendo che “questo non è più sport”. In un’intervista al New York Times, il padre di Rachel, Marvin Richardson, vicedirettore del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, ha descritto la scena alla partita come preoccupante e violenta, spiegando che la figlia non aveva reagito agli insulti per paura di conseguenze più gravi.
Il 28 agosto la stessa Rachel ha pubblicato una sua versione dei fatti su Twitter, raccontando che lei e i suoi «compagni di squadra afroamericani siamo stati presi di mira e insultati con epiteti razzisti per l’intera partita. Gli insulti e i commenti si sono trasformati in minacce che ci hanno fatto sentire insicuri». Pochi giorni dopo Rachel Richardson ha confermato la storia in un’intervista a ESPN, accusando gli allenatori della BYU di non avere fatto nulla per fermare una situazione fuori controllo.
Tutti i media raccontano il razzismo della BYU
Il governatore dello Utah, Spencer Cox, in una dichiarazione su Twitter si è detto «disgustato» dalla vicenda, condannando il fatto che nessuno sia intervenuto: «Come società dobbiamo fare di più per creare un’atmosfera in cui gli stronzi razzisti come questo non si sentano mai a proprio agio nell’attaccare gli altri». La Brigham Young University ha chiesto ufficialmente scusa per l’episodio spiegando che il responsabile degli insulti era stato individuato e bandito dalle manifestazioni sportive universitarie.
Tutti i principali media americani si sono buttati sulla storia: New York Times, Washington Post, CNN, Sports Illustrated, NPR e molti altri hanno coperto la cronaca e pubblicato editoriali di condanna. L’allenatore di basket femminile dell’Università della Carolina del Sud ha annullato la gara d’esordio casalinga contro la BYU, e altre partite che si sarebbero dovute giocare nella palestra della BYU sono state spostate. La vicenda di Rachel Richardson è arrivata a milioni di americani come l’ennesimo esempio di una società, quella degli Stati Uniti, irrimediabilmente razzista. Peccato che non sia mai successa.
Nessuna prova dell’episodio di razzismo alla BYU
Se andate a cercare il tweet di Lesa Pamplin da cui tutto è partito, non c’è più (è archiviato qui). Così come non c’è più il tweet di condanna del governatore. All’intervista al padre di Rachel il NYT ha aggiunto un cappello introduttivo in cui è costretto ad ammettere che dopo un’indagine non ci sono prove che l’episodio di razzismo denunciato sia mai avvenuto. A mettere in fila tutti i fatti è stato Jesse Singal sul suo Substack, ripreso poi su Common Sense di Bari Weiss.
E i fatti, come sono soliti ricordare proprio quei media che sono andati dietro alla denuncia della Richerdson senza verificarla, sono testardi. «Non ci sono prove che la catena di eventi descritta da Richardson e dai suoi familiari si sia verificata», scrive Singal. «Non ci sono nemmeno prove che un singolo insulto sia stato lanciato contro di lei e i suoi compagni di squadra, altro che un terrificante assalto nei loro confronti. Tutti i giornalisti che hanno raccontato da creduloni questo fatto si sono sbagliati».
Eppure erano molti i particolari che non tornavano nella vicenda. «Richardson e i suoi familiari hanno riferito che insulti razzisti erano stati lanciati con slancio, ad alta voce e ripetutamente, in una palestra affollata con più di 5.000 persone. Ma i giornalisti che hanno seguito questo incidente non hanno notato quanto fosse strano che nessuno di questi insulti fosse stato catturato da nessuna delle migliaia di telecamere portatili presenti in palestra in quel momento, né dalle telecamere più grandi che registravano la partita. Né hanno trovato strano che nei giorni successivi all’incidente non si sia fatto avanti un solo altro testimone oculare: nessuno dei compagni di squadra neri di Richardson e nessuno dei giocatori di nessuna delle due squadre».
Il piccolo giornale che ha fatto il lavoro non fatto dai grandi
Invece di prestare attenzione ai dettagli e “frenare” per porsi alcune domande, «i giornalisti tradizionali hanno semplicemente consumato e rigurgitato la storia come era stata loro data in pasto da Richardson, dalla sua madrina, da suo padre e dall’apparato di pubbliche relazioni di un’importante università». Questa storia è molto istruttiva per tanti versi: a fare il lavoro giornalistico di ricerca delle fonti che i grandi giornali non hanno fatto è stato un piccolo giornale universitario conservatore, il Cougar Chronicle, che ha scoperto tra le altre cose che l’uomo incolpato di avere aizzato la folla non aveva fatto nulla. La BYU gli ha revocato il “daspo”, condotto un’indagine interna e ammesso di non avere trovato prove di quanto detto dalla Richardson.
Perché allora chiedere scusa subito, senza nemmeno indagare a fondo per capire cosa fosse successo in palestra durante quella partita? Perché l’antirazzismo, e in generale la giustizia sociale, ha preso il sopravvento sulla realtà. Lo dice bene Singal, ed è un problema che coinvolge sempre più redazioni: «L’iniezione di valori politici anche nei reportage, minando lo scopo stesso del giornalismo. Tra i giornalisti attivisti, l’idea di base è che fare appello all’obiettività – che significa che il giornalista cercherà informazioni cruciali e agirà come un arbitro neutrale – non promuove la giustizia sociale. Così però i giornalisti fanno facendo gli stessi errori che dicono venissero fatti nel passato, ma all’opposto».
Il problema dei giornalisti attivisti
Se un tempo i media accusavano le accuse di razzismo, oggi le prendono per vere per sentito dire. Se le vecchie generazioni di giornalisti non prendevano sul serio le aggressioni sessuali, ora la parola d’ordine è credere a qualunque donna anche senza prove. Non solo, aggiunge Singal, oggi l’attivismo sembra essere un requisito necessario per fare i giornalisti. Naturalmente dopo che la storia degli insulti razzisti a Richardson si è sgonfiata, è quasi scomparsa dai media, solo il New York Times ha fatto un mezzo passo indietro, anche se ha detto che le indagini interne stavano continuando.
Peccato che storie come questa abbiano conseguenze gravi, e non per forza solo sulla credibilità dei giornali, anzi: il ragazzo accusato di avere insultato la Richardson è stato al centro di una polemica basata su una fake news per giorni, umiliandosi, un intero corpo studentesco è stato additato come razzista sui principali media americani, e soprattutto milioni di persone continueranno a credere che questa storia sia successa davvero, dato che pochi si prendono la briga di approfondire, e gli stessi giornali che solitamente puntano forte sul fact checking e il debunking non si sono impegnati troppo per dare visibilità alla smentita. Un atteggiamento che ha la conseguenza di dividere ancora di più una società già lacerata, facendo esattamente il gioco che con gli slogan e le campagne abbonamenti si dice di volere smontare.
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