Lungomare di Rimini, una notte nel culmine dell’estate. Turisti nordici paonazzi di sole vagabondano ebbri di birra. Ragazze splendide e giovani mamme con il bambino addormentato nel passeggino, vecchie tedesche sfatte e branchi di ragazzi vocianti. Nei locali i camerieri si affannano con i vassoi carichi di bicchieri tintinnanti. Le luci delle sale giochi lampeggiano nel buio, una giostra urla una vecchia canzonetta dello Zecchino d’oro. Dalle auto ferme in coda musica a tutto volume. Nell’aria come un’ansia avida di vivere fino all’ultimo minuto la notte, di riempirsi gli occhi e le mani di queste luci, di questa febbre gaia che muove la folla avanti e indietro lungo il mare.
Eppure, se percorri da solo le vie della città delle vacanze può afferrarti un sottile smarrimento che già si avvita in una confusa malinconia. Riconosci negli altri la stessa tua voglia di gioia, ma non la riempiono le luci e la musica, e dubiti che neanche l’alcool basterebbe a illuderti che corrisponda, nella frenesia del colmo dell’estate. Ti fa, tutto il rumore e le risate e le voci e lo sfilare di corpi abbronzati, quasi un po’ di paura, come una giostra troppo veloce da cui vorresti scendere. E intanto dal mare salgono fuochi d’artificio e la gente si ferma e guarda e resta a guardare: l’iride dei colori che s’allargano nella notte come grandi fiori, con una meraviglia da bambini. è l’estate, in quei fuochi, che pare aprirsi e offrirsi alla voglia degli uomini davanti al mare.
Vorresti non avere quella sottile paura. Saper guardare quegli estranei così disperatamente impegnati a di-strarsi, con altri occhi, e vedere, oltre le camicie sgargianti, cosa c’è al fondo, cosa hanno nel cuore, e cosa ancora appagherebbe quell’ansia quasi sguaiata di vita.
Ma non sei capace di questo sguardo. Intuisci, però, che nei pensieri non detti forse neanche a se stessi la domanda in fondo sia sempre la stessa, magari inascoltata o fraintesa, o condotta in giro nel rumore, quasi ad annientarla. E tutta Rimini ora nella sua notte di luci ti appare come un grumo di domanda e desiderio, un mendicare, o afferrare, quel che si può di gioia – prima che si faccia troppo tardi.
Guardi ora non più con paura, ma con una dolorosa tenerezza a te e agli altri. Anche il loro vociare ti sembra dire un affanno: vivere, vogliamo essere felici per sempre, ma misteriosamente, poi nulla ci basta di ciò che stringiamo. Così, ogni volta, dobbiamo cominciare daccapo. Avanti e indietro, la irrequieta folla che oscilla per il lungomare.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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