E’stato un massacro annunciato, ma soprattutto compiuto sotto gli occhi del mondo. Si tratta in realtà di un macabro deja-vu che riporta la memoria ad un lontano ottobre del ’65, quando in Indonesia il vecchio corso della “Guided Democracy” lasciava il posto al “Nuovo Ordine” del generale Suharto. I morti ammazzati furono stimati nell’ordine delle diverse centinaia di migliaia laddove anche all’epoca il “lavoro sporco” fu opera della milizia, mentre solo saltuariamente l’esercito prese parte diretta ai massacri. Nella maggior parte dei casi si limitò a fornire armi, addestramento rudimentale ed incoraggiamento alle gang dei “vigilanti”.
Niente di nuovo quindi sotto il sole di Indonesia. Si tratterà solo di contare i cadaveri una volta in più, quegli stessi cadaveri che a Timor Est sono già stati contati nel 1975. All’epoca si parlò di più di 200mila morti, una cifra ovviamente arrotondata per difetto. Attirati dal sangue dei cadaveri mutilati gettati in mare, sciami di pescecani vennero segnalati lungo le coste timoresi ma, immerso nei problemi dei precari equilibri della guerra fredda, il mondo all’epoca guardava dall’altra parte. Quello stesso mondo è oggi reduce da una guerra scatenata contro la Jugoslavia per prevenire la “pulizia etnica” degli albanesi. Anche per difendere la propria credibilità quindi, deve fare ora i conti anche con questo genocidio, il secondo compiuto in poco più di vent’anni su una piccola isola. Perché di genocidio parlano le autorità religiose di Timor Est. Più che di una vera e propria pulizia etnica, in questo caso si tratta infatti di “pulizia politico-religiosa”, laddove la motivazione politica è l’attacco contro la volontà indipendentista di una popolazione che è al tempo stesso un minuscolo enclave cattolico all’interno del più grande Paese musulmano.