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Quella di Saragat sì che fu una scissione, altro che i rancori del Pd

Lo chiamarono rinnegato e fascista, ma il protagonista dello strappo di Palazzo Barberini appare oggi come una personalità «di grande rilievo» rispetto ai risentiti della minoranza dem

Luca Tedesco
21/02/2017 - 16:42
Politica
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saragat-giuseppe-ansa

Fu uno storico inglese, Paul Ginsborg, ad ammettere, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, di non avere dubbio alcuno «che all’interno dell’arco politico italiano esisteva tanto lo spazio quanto il bisogno di una forza che fosse antistalinista, socialdemocratica ed esplicitamente riformista». Alcuni anni dopo un protagonista di prima fila dell’ex Pci, Emanuele Macaluso, avrebbe ribadito come avesse visto giusto Saragat nell’affermare che non aveva «futuro un partito socialista filosovietico» in quanto sarebbe stato «sempre un partito secondo nei confronti del Pci».

Certo, lo stesso Macaluso ma anche storici come Tamburrano, Lanaro e Fornaro hanno espresso delle perplessità sulla bontà della scelta della scissione di Palazzo Barberini, proprio nella prospettiva del radicamento di un partito socialista e democratico che fosse competitivo con il Partito comunista. Lo stesso Nenni avrebbe ammesso nella sua nota Intervista sul socialismo italiano del 1977 che se Saragat avesse condotto la sua battaglia riformista all’interno del Psiup, la sua linea avrebbe alla fine prevalso. Quella scissione, insomma, avrebbe indebolito l’area socialista nel suo complesso e mostrato lo scarso appeal elettorale del socialismo democratico negli anni della fase più acuta della Guerra fredda, a tutto vantaggio del Pci.

Errori tattici? Impazienza? Forse. Nessuno però oggi avrebbe il coraggio di indirizzare a Saragat quelle accuse, pesantissime, che gli furono lanciate negli anni Quaranta e Cinquanta e anche dopo, vale a dire di essere un socialtraditore, un rinnegato al soldo degli americani; di più un socialfascista.

Fortemente ridimensionata in sede storiografica l’entità del sostegno finanziario dei sindacati italo-americani alla costituzione del Psli, sostegno peraltro pienamente giustificabile in un momento storico in cui i partiti di massa beneficiavano di apporti dall’estero ben più consistenti, la scissione di Palazzo Barberini appare oggi non come una operazione eterodiretta ma come il frutto di una precisa proposta politica; proposta politica che ambiva, in politica interna, ad allargare il perimetro del socialismo democratico al di fuori dell’elettorato operaio per comprendervi anche i ceti medi e, nelle relazioni internazionali, pur non rinunciando a fare, per citare Saragat, dell’«Europa un terzo termine di equilibrio fra i due blocchi» nel lungo periodo, a schierare l’Italia nell’immediato dopoguerra accanto agli Stati Uniti, cui il leader del Psli riconosceva di aver «impostato la propria politica europea sull’alternativa pacifica, offrendo la collaborazione economica».

Se poi rivolgiamo l’attenzione alla personalità di Saragat, non possiamo non sottolinearne lo spirito antidogmatico ed anticonformista e non concordare con quanto, a dieci anni dalla sua morte, ebbe a dire l’allora presidente della Repubblica, Osca Luigi Scalfaro, e cioè che la sua scelta «di schierarsi fin dall’inizio per la libertà» non fu dettata da mero «calcolo politico o di potere».

Per una precisa volontà delle classi dirigenti comuniste europee, nel movimento operaio «al posto di un pensiero critico si sostituisce un catechismo dogmatico, al posto della coscienza di classe un conformismo di classe […], uno stato di ricettività mistica, negatrice di ogni pensiero critico». Così si esprimeva Saragat nel discorso pronunciato il 12 gennaio 1947 a Palazzo Barberini. Convintamente marxista, Saragat riteneva però che la società socialista dovesse edificarsi sulla responsabilità e personalità individuali, da garantirsi tramite la dialettica democratica all’interno dei partiti e la difesa degli istituti liberaldemocratici nella vita politica del Paese. Al di fuori di questi, infatti, «nasce la statolatria, nasce il totalitarismo, nasce non la libertà sociale, ma la coercizione sociale».

Forse è a questa prospettiva di umanesimo marxista e socialismo democratico che, al di là delle valutazioni che si possono fare circa la sua praticabilità, si riferiva Paolo Mieli nel suo editoriale sul Corriere della Sera di lunedì scorso quando osservava che «la personalità dello scissionista» Saragat «era davvero di grande rilievo e l’occasione dello strappo meno pretestuosa della data di un congresso», fragile paravento, risibile cortina fumogena dietro cui dissimulare rancori personali, e quindi nient’affatto politici, livori più o meno senili e debolezze psicologiche di una (ex) classe dirigente, quella del Pd, infantilmente incapace di accettare di essere minoranza.

Luca Tedesco, autore di questo articolo, è professore associato in Storia contemporanea all’Università degli studi Roma Tre

Foto Ansa

Tags: comunismopaolo mielipciscissione pdsocialismo
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