Gli alberi dei boschi sono come gli uomini sulla terra: non ce n’è uno che sia uguale ad un altro. è stata una delle mie prime scoperte, quando giocavo a nascondermi e a costruire capanni nelle faggete attorno alla cà. Dev’essere per questo che rifuggo le cose tutte uguali, fatte con lo stampino. Sul pavimento di casa mia giacciono, sistemati uno per uno da un esperto e massiccio posatore bergamasco, centinaia di “madoni”, ovvero i vecchi mattoni da quindici per quaranta che fino a quarant’anni fa si appoggiavano sui travetti per fare il pavimento delle camere al primo piano. Son tutti diversi. La cottura della fornace ha fissato per sempre una determinata sfumatura di colore, un gioco di impasto unico ed irripetibile. Se penso alle piastrelle colorate tutte uguali uguali, mi vengono i brividi. Piuttosto lascerei la terra battuta. Anche le vecchie travi di legno, oltre a quei mattoni, hanno questo dono della casualità dei nodi, delle venature, dei percorsi paralleli delle fibre. Un pavimento di legno vecchio è una meraviglia, perché si presenta al mondo offrendo lo spettacolo dell’accostamento regolare della diversità.
Mi è sempre piaciuta l’idea di possedere un bosco. Un bosco? Ma perché? Così mi chiedevano gli amici, che invece sognavano di farsi una villetta a schiera al mare o in montagna. Sulle prime non sapevo bene cosa rispondere, perché avere un bosco è sempre stato uno dei miei desideri fin da piccolo. Era una delle cose che – allora – mi proponevo quando avevo vent’anni e ancora mezzo addormentato camminavo la mattina presto sul cavalcavia di Novate per raggiungere l’officina. Poi mi son chiarito il perché. Il bosco è la perfetta metafora della vita spirituale di ogni uomo. In primis: nel bosco c’è silenzio. Non ci sono rumori inutili: tutto quanto si muove e vive ha un significato ed un senso che non va sprecato. Il volo di qualche ghiandaia. Il battere del picchio. Lo spezzarsi di rami secchi sotto il peso della neve. Il passaggio discreto di un camoscio. Il tonfo dei ricci dai castagni sul dosso, che rivelano, semiaperti, il loro tesoro color di terra lucida. Ecco perché dico sempre ai ragazzi di non urlare nel bosco. Chi accenna jodel improbabili o sghignazza sguaiato mi procura un grande fastidio interiore. Vorrebbero imporre, dominare alzando la voce quello che sentono che comunque li sovrasta. è così bello, invece, restare e lavorare nel silenzio. Perché sprecare parole che non servono? Perché interrompere il silenzio? C’è una purezza perduta, nel bosco.
Il bosco è immagine della Creazione, che attende. è vita che germoglia silenziosa, ogni cosa al suo tempo. Settimana dopo settimana vedo le gemme formarsi nel segreto. Già a febbraio qualcosa si prepara tra i rami, a fine marzo il verde esplode all’improvviso. Un inno senza parole né musica alla vita, alla luce ed al tepore che scendono dall’alto. Dal sottobosco, dall’umido strato di foglie decomposte spuntano polloni, ramaglie, erbe lucide, primule color giallo intenso, belle anche se il tempo e le nuvole regalano ancora acqua a catinelle. Un bosco rispetta delle regole fissate dall’eternità, è ricordo di una antica armonia che si è smarrita nella malinconia delle nostre periferie rugginose, nelle risse sguaiate sulle prime pagine dei giornali, nel pianto o nel grido di chi ha smarrito nel rumore il senso del tempo, ed ha timore del silenzio.
E poi la sua perfetta casualità. La distanza tra le singole piante non è mai calcolata col metro, o con la livella. Eppure è perfetta. Non ci sono geometrie euclidee, ma un puro accordo tra le forme. Ogni edera ricade al posto giusto. Ogni tronco si torce in modo diverso ma complementare. Ogni balza ha la quantità adeguata di erbe e fiori. è un insieme di proporzioni che nessuno potrà mai riprodurre. Non è questa la prova dell’esistenza di un Creatore?
Quando, passando rapido, percorro le superstrade che attraversano le montagne brulle della Sardegna oppure costeggio le vaste estensioni di monocultura nella grande pianura, provo un brivido quando vedo gli alberi dei rimboschimenti. Ogni pianta è stata inserita in fosse a distanze regolari, programmate col computer. Soldatini messi in parata come per antiche battaglie napoleoniche. Pioppi radi, nelle golene lungo il fiume, che aspettano composti il momento di essere tagliati per diventare carta. Ecco, in tutti quei posti non riuscivo mai a giocare o a sostare. Era come essere dentro ad una scacchiera. Non c’era la minima digressione al caso. Proprio come il mio vicino un po’ toccato, che semina nel suo orto file regolari di cipolle a distanza esattissima, misurata col decimetro, il quale svelle con silenzioso furore la piantina che è spuntata appena più in là dal solco.
Un mondo senza boschi è un mondo omologato, appiattito. Se mi parlano di villaggio globale qualcosa dentro mi si ribella. Mi vien voglia di salire in fretta alla cà per rimirare ed ascoltare castagni e faggi frusciare al vento. Come farei, senza la sorpresa del nuovo ad ogni passo, ad ogni svolta del sentiero? Senza quelle sfumature di colore ogni giorno irripetibili, che sopravvivono solo nel ricordo?
Questo continuo crescere e mutare, nella diversità, pur restando lì a dipendere dalla pioggia e dal sole, è quello che desidero per me e per la mia gente.
Vivere il proprio sentiero, diversi ma nella medesima foresta, ben coscienti del cielo sopra. E che sole ed acqua son dono gratuito e silenzioso.
Simi. O del miracolo dell’ospitalità
Marco Simi proveniva da una delle prime famiglie “aperte” di Milano (ospitava i tossicodipendenti in casa prima di avviarli alle prime comunità terapeutiche). Sua madre, medaglia d’oro al merito civile, è stata una delle principali organizzatrici di esperienze di accoglienza a Milano e ha diretto per molti anni la Comunità Emmanuel della Lombardia. Nato il 14 giugno del 1958 a Milano, in via Tartaglia 19, Marco fu il primogenito di Agnese, di origine trentina, e di Giulio, di origine toscana. Dopo di lui nascono Enrichetto (morto precocemente), Stefano, Giovanni e Chiara. Giulio ed Agnese sono di sicura fede cattolica, educati nel movimento scout.
Da loro Marco trasse la sua profonda religiosità, il suo attaccamento alla Chiesa e il suo amore per la montagna, che ispira molti suoi racconti (reperibili su http://www.thuler.net/).
Frequentò a Milano la scuola serale all’Istituto Tecnico Industriale “Molinari”, dove incontrò i ragazzi di Comunione e Liberazione; di giorno lavorava in fabbrica.
A quegli anni risalgono le sue prime canzoni: Marco suonava molto bene la chitarra acustica e cantava volentieri, aiutato dalla sua bella voce baritonale. Appassionato di musica medievale, non disdegnava quella moderna (Battiato, Renboum, Malicome). Fra i suoi amici, Claudio Chieffo e Bill Congdon. Si esibì con la chitarra al Meeting di Rimini, fondò una compagnia d’arte e la chiamò “La Confraternita dell’Evidenza Prima”. Fra i primi spettacoli, memorabile una serata di musiche e danze medievali alle Colonne di San Lorenzo, a Milano. Come pubblicista collaborò saltuariamente con II Sabato.
Al 1983 risale il suo incontro con la futura moglie Aida Salanti, una giovane insegnante della campagna cremonese, anche lei appartenente al movimento di don Giussani. Marco e Aida si sposano il 27 maggio 1984 e vanno ad abitare in una grande cascina della campagna cremonese, ad Azzanello. Nascono Maria Acqua (1985), Mira (1987), Saverio (1992).
La coppia si trasferisce alla periferia di Cremona, in una casa antica, collocata sulla scarpata del paleoalveo del Po.
Nel 1984 Marco crea una Cooperativa Sociale, “Umana Avventura”, dedicata alla prevenzione delle devianze giovanili. Segue l’apertura dello studio progettazione reti sociali dove testimonia la sua profonda originalità e umanità, definendo progetti sociali per enti pubblici e privati. Dal 1995 collabora con Valter Izzo e l’associazione “La strada” di Milano.
Nei vent’anni di matrimonio Marco e Aida si aprono a svariate esperienze di solidarietà sociale. L’ultima in ordine di tempo, e memorabile per le dolorose vicende connesse, resta l’affido accordato a Fidencie, una bambina ruandese, capitata in Italia fortunosamente e rivendicata da sedicenti genitori dimoranti all’estero. Marco e Aida iniziano una durissima battaglia legale per ottenere alla bambina la certezza della propria ascendenza familiare. Il caso scoppia sui giornali ed è oggetto di interrogazioni in Parlamento (cfr. Tempi, 24 maggio 2000, Rodolfo Casadei). La famiglia Simi esce da questa esperienza, portata avanti con eroica determinazione, duramente provata.
Nel 2003, in cordata con Lorenzo Crostajonda, Marco fonda la Cooperativa “Eco-Company”, per dare lavoro a soggetti svantaggiati e disabili.
Nel frattempo muore suo padre Giulio, lasciando il ricordo di uomo di profonda spiritualità. Il 27 maggio 2001 muore anche mamma Agnese, dopo una vita di dedizione agli emarginati.
Lo stesso giorno, tre anni dopo, nel ventesimo anniversario di nozze, Marco muore improvvisamente, fra le braccia della moglie.
Una grande folla di estimatori ed amici accompagna il feretro fino al cimitero della sua parrocchia di Bonemerse, nella quale Marco lascia il ricordo di uomo di grande carità cristiana, di coraggioso difensore dell’ortodossia della fede, oltre che di fine cultura e di grande capacità di amicizia, educato in tutto ciò dal movimento di don Giussani.
A cura di gruppo di amici di Comunione e Liberazione di Cremona