Quel finale di Munich che sembra scritto da Ahmadinejad

Di Reibman Yasha
02 Febbraio 2006

A differenza di “Jurassic Park” è difficile giudicare “Munich” al di fuori del contenuto e del messaggio che sembra inviare. L’assassinio di 11 atleti israeliani alle Olimpiadi da parte di terroristi palestinesi sconvolge ancora. Germania, terrorismo ed ebrei, una tremenda associazione. Questo crimine non doveva restare impunito: non si mosse l’Occidente, lo fece Israele. L’allora primo ministro Golda Meir decise di colpire i terroristi responsabili della strage e incaricò della missione un gruppo di agenti israeliani. Un compito difficilissimo, non solo da realizzare, ma anche da sopportare. Il film lo illustra bene. Gli agenti sono mostrati come uomini che devono uccidere altri uomini. Questa consapevolezza non viene invece attribuita ai terroristi.
L’odio e i deliri di Hamas e degli shahid sembrano confermarcelo quotidianamente. Come disse Golda Meir: «Vi potremo perdonare per aver ucciso i nostri figli, ma non potremo mai farlo per averci costretto a uccidere i vostri». Difficile però condividere la conclusione del film. La scelta – non vera storicamente – dell’agente israeliano, distrutto dalla violenza, di abbandonare Israele e restare negli States sembra proporre una soluzione paradossale per il conflitto arabo-israeliano: il diasporismo. La teoria è già illustrata da Philip Roth in Operazione Shylock, l’obiettivo è evitare lo sterminio nucleare di milioni di ebrei oggi residenti in Israele tramite il trasferimento in Europa, Usa, Australia. Una proposta avanzata anche dal presidente iraniano Ahmadinejad.

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