Ma quanto è alta questa pressione fiscale? 40, 50 o 60 per cento? Per qualcuno anche molto di più

Di Matteo Rigamonti
16 Dicembre 2014
Ecco perché le stime sul livello di tassazione per le imprese in Italia variano così tanto. E perché tutte concordano su un punto: il costo troppo alto del lavoro

Quaranta, cinquanta o sessanta per cento? O addirittura di più? A quanto ammonta davvero il livello della pressione fiscale sulle imprese in Italia? Leggendo il fiume di stime, dati e statistiche che ogni giorno vengono diffuse da centri studi e istituzioni più o meno autorevoli, le possibili risposte sembrano tutte in contraddizione fra loro. Come mai? Semplice: perché ognuna dipende da come si calcola quella percentuale e da quali tasse si prendono in considerazione.

LEGGERE LE STATISTICHE. Il colosso della revisione contabile Kpmg, per esempio, realizza ogni anno uno studio sul “corporate tax rate” e quest’anno ha indicato un livello della pressione fiscale sulle imprese in Italia pari al 31,4 per cento. Ma come l’ha calcolato? Sommando semplicemente l’imposta sul reddito delle società (Ires), al 27,5 per cento, all’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), al 3,9 per cento. Peccato che, come ha fatto notare l’imprenditore delle macchine agricole Fabrizio Castoldi a Panorama, «mentre negli altri paesi questo tipo di tasse si applica sul Rai, il reddito ante imposte, in Italia l’imponibile comprende anche il costo del denaro, del lavoro (almeno fino a ora), i costi auto, accantonamenti vari e perfino l’Imu». Così che la pressione fiscale, in realtà, è molto più alta.

IL CUNEO FISCALE. Quanto? Il vero livello della pressione fiscale in Italia non può essere nemmeno quel 42,6 per cento misurato dall’Ocse come “peso” delle entrate fiscali sul prodotto interno lordo. Si tratta infatti di una stima indifferenziata, che pure basta a collocarci al quinto posto a livello mondiale dietro campioni dello “Stato pesante” come Danimarca, Francia, Belgio e Finlandia.
Ha ragione allora chi sostiene che la pressione fiscale in Italia abbia raggiunto il 50 per cento? Non proprio, quest’ultima è piuttosto la misura del cuneo fiscale, ovvero quanto un lavoratore riceve in busta paga rispetto a quanto lo stesso lavoratore costa effettivamente all’azienda, tra imposte varie e contribuiti previdenziali. Una forbice che non a caso Christine Lagarde ci ha appena chiesto di stringere. Perché – ha detto il direttore del Fmi – va bene il Jobs Act che «è importante per migliorare il mercato del lavoro», ed è altrettanto giusto «combattere il dualismo tra chi ha protezioni forti e i precari non tutelati», ma «occorrono misure per abbassare le aliquote fiscali marginali o per ridurre il cuneo fiscale, che scoraggia gli investimenti in forza lavoro e capitale».

65,4 PER CENTO. Più completa appare la stima di PriceWaterhouseCoopers (Pwc), altro colosso mondiale della consulenza aziendale, che, con l’indice “Paying Taxes 2015”, ha individuato un carico fiscale complessivo, considerando le imposte sugli utili, quelle sul lavoro e altri oneri. Calcolata in questo modo, la pressione fiscale in Italia si attesta a un livello pari al 65,4 per cento. Contro una media mondiale del 40,9 e una europea del 41 per cento. Peggio di noi solo la Francia con il 66,6 per cento. Seguono Spagna (58,2), Belgio (57,8), Austria (52), Svezia (49,4), Estonia (49,3), Germania (48,8), Repubblica Ceca (48,5) e Ungheria (48). In Polonia il carico fiscale complessivo è del 38,7 per cento. In Romania (43,2) e Stati Uniti (43,8) esso equivale alla sola nostra componente lavoro.

C’È CHI STA PEGGIO. C’è poi chi, come Livia De Poli, (ex) titolare della Orion Group di San Martino di Lupari (Padova), intervistata da Repubblica, ha spiegato di pagare «in tasse il 78 per cento degli utili». E non è la sola. Castoldi, infatti, che a 70 anni è ancora alla guida del gruppo Bcs, una società da oltre 100 milioni di fatturato e 700 dipendenti, ha subìto «una pressione fiscale media dell’85 per cento negli ultimi 5 anni». La sua società, infatti, fa parte delle imprese manifatturiere meccaniche che, secondo Assolombarda, subiscono una pressione fiscale media paria al 71,9 per cento.
Capito, dunque, perché, anche la Banca d’Italia ha dovuto ammettere che le tasse sul lavoro frenano la crescita e competitività dell’industria?

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1 commento

  1. Quercia

    Dire che le imprese in Italia subiscono una pressione fiscale pari al 31,4% secondo me è una semplificazione esagerata. Se vogliamo limitarci alla semplice somma delle imposte (il che non ha molto senso visto che non tiene conto di tutte le imposte che le imprese pagano in termini di aumento di prezzi es.accise benzina e non tiene conto del carico contributivo Inps ecc), almeno contiamole tutte. Quindi non solo le dirette: Ires e Irap =31,4%, ma tutte le indirette: imposte di registro, catastali, ipotecarie, successioni, donazioni, imposta di bollo, Imu, Tari, Tasi, Ivie, tassa concessione governativa, imposta sulle assicurazioni, imposta sugli intrattenimenti, tasse sulle emissioni inquinanti, tobin tax, Ivafe, imp.comunale sulla pubblicità, diritti sulle pubbliche affissioni, canone per l’occupazione di spazi pubblici, tosap, bollo auto, Imposta di scopo comunale…probabilmente ce ne sono altre…che so, tassa camera di commercio, marche da bollo da applicare alle pratiche burocratiche ecc ecc

    Senza perderci in mille nomi, esempio molto terra terra, se un disoccupato oggi decide di aprire partita Iva, molto probabilmente se guadagna 20mila € ci dovrà pagare almeno il 23% di Irpef e una cifra che oscilla dal 20% al 30% di Inps. A questo prelievo, mix fra tasse e contributi (sperando che gli vengano riconosciuti fra decenni) pari a quasi il 50% di quanto ha guadagnato (gli restano in tasca 10mila € ca) , si aggiungono tutte le tasse indirette sul consumo (iva, accise ecc), risparmio (bolli c/c vari), proprietà (imu, tasi, tari, bollo auto ecc).
    Senza contare tutta una serie di tasse e balzelli vari che bisogna pagare ogni volta che si deve fare un’operazione: donazione? tassa ad hoc, successione? tassa ad hoc. Acquisto casa? tassa ad hoc.

    Tanto valeva che con quei 10mila € si comprasse un materasso, ci pagasse l’Iva, e i restanti 9mila e rotti, ossia 10mila – l’iva (altra imposta), li nascondesse sotto il materasso. Altrimenti ogni volta che quei 10mila “netti” li usa, vengono nuovamente tassati.

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