Primarie Pd. Vincerà l’uomo d’apparato Bersani o il corpo estraneo Renzi?
Immaginate per un istante di essere alle Olimpiadi. Due atleti, solo loro due, si sono classificati per la finale dei cento metri. Sono ai blocchi di partenza. L’atleta nella prima corsia gioca in casa, ha tutto lo stadio dalla sua. L’atleta nella seconda corsia è straniero, con sé solo uno spicchio della tifoseria, quello abbarbicato in alto, vicino alla curva. Gaie e battagliere, le loro voci soffocate dalle migliaia che tifano per l’avversario. Davanti al primo atleta una corsia sgombra, il traguardo cento metri più in là. Di fronte al secondo una serie di ostacoli da saltare uno dopo l’altro, con l’arrivo spostato una decina di metri dopo quello dell’avversario.
Se siete riusciti a figurarvi la scena surreale, vi basterà traslarla alle primarie del centrosinistra che si terranno domenica 25 novembre, e avrete un quadro abbastanza realistico della situazione. Edulcorato quel tanto che basta a una metafora per descrivere efficacemente la realtà. Tolti Bruno Tabacci e Laura Puppato – due candidature destinate a rimanere ben al di sotto della doppia cifra percentuale – e tolto anche Nichi Vendola, la cui presenza ai gazebo è frutto della partita che il segretario di Sel sta giocando in vista delle future alleanze, la corsa per la vittoria è tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi. Una gara dove il secondo, ai blocchi di partenza, si è ritrovato di fronte una pista più lunga e una manciata di asticelle da saltare.
Certo, il segretario democratico ha avuto un grande merito, quello di concedere la celebrazione delle primarie di coalizione nonostante lo statuto le prevedesse, a livello nazionale, solamente per la guida del partito, per di più indicando automaticamente nel segretario generale il candidato per la premiership. La deroga alle norme interne chiesta da Bersani ha permesso ai democratici di avviare un vivace dibattito interno che, al netto delle asperità, è il collante che sta consentendo al partito di resistere meglio degli altri alla violenta ondata antipolitica che attraversa il paese. Un confronto aperto, fresco, innovativo per i (poco) sacri palazzi, che verrà sicuramente stemperato dalle alchimie delle alleanze in vista delle elezioni politiche che partiranno a gazebo chiusi. Ma se non verrà dispersa, sarà un’ottima rendita da capitalizzare nei prossimi mesi.
Al netto di tutto questo, rimane il fatto che ai due principali candidati non è stata data la possibilità di concorrere ad armi pari. Bersani fa parte di un gruppo dirigente coeso, rappresenta la temporanea testa dell’ariete composta da quello che su queste pagine Antonio Funiciello definisce come un vero e proprio “patto di sindacato”. Un gruppo d’interesse che negli anni si è reso protagonista di accese diatribe interne e scontri al vertice. Ma che si è mosso compatto allorché la contendibilità della leadership è stata messa in gioco da un attore esterno. Per quanto si voglia scavare nel passato del sindaco di Firenze, portandone alla luce gli anni di militanza nei movimenti giovanili cattolici prima, e nella dirigenza locale della Margherita poi, Renzi non ha mai condiviso la responsabilità di scegliere le linee guida del Partito democratico. La sua è dunque una candidatura aliena ai delicati equilibri della squadra che lo governa da sempre. La quale ha reagito d’istinto, cercando di complicare la faccenda per un competitor attualmente sprovvisto delle chiavi del partito. Da qui la decisione di rendere l’adesione al manifesto d’intenti del centrosinistra pregressa e non concomitante con le operazioni di voto. Solo dopo le proteste sollevate dai simpatizzanti renziani e da parte della stampa, il comitato dei garanti ha stabilito che ci si possa registrare anche al momento del voto. Ma le file (e in alcuni casi pure la sede di registrazione e quella di voto) rimarranno diversificate. Un modo per favorire il voto strutturato degli iscritti, penalizzando gli “elettori occasionali” tra i quali Renzi sperava e spera ancora di attingere a piene mani. E solo all’ultimo si è scongiurato un ballottaggio chiuso, riservato esclusivamente a chi si fosse iscritto entro il 25 novembre, un meccanismo escogitato sempre per limitare il voto dei non iscritti. Ma la logica stessa del secondo turno in assenza di un vincitore al primo è un unicum in tutta la storia delle primarie piddine. Servirà al segretario sia, ancora una volta, per rendere preponderante il voto dei militanti, sia per contare sui voti di chi dal ballottaggio sarà escluso. È assai difficile infatti che all’eventuale ballottaggio i voti dei fan del terzo incomodo Vendola si orientino sulle posizioni troppo liberal di Renzi, con ogni probabilità finiranno per favorire Bersani. Senza contare che il prevedibile calo di votanti al secondo turno dovrebbe già di per sé favorire il leader. Per arrivare davanti al primo turno, secondo gli esperti, il sindaco di Firenze avrebbe bisogno che alle urne si recassero circa 4 milioni di votanti. Per vincere al ballottaggio, poco più di due milioni e mezzo. Cifre che appaiono molto lontane dai pronostici attuali, che parlano rispettivamente di 3 e 2 milioni di elettori. Anche per questo il 19 novembre, ospite a Otto e mezzo di La7, lo sfidante svantaggiato di Bersani si è obbligato a moderare le rimostranze: «Ho fatto passare il messaggio che votare è complicato. E allora lancio l’appello ad andare ai gazebo».
Che a conti fatti la chiamata al voto dei “non organici” sia decisiva o meno, non è detto che Renzi non riesca comunque a capitalizzare a proprio favore il percorso a ostacoli. Nell’eventualità di un testa a testa finale, infatti, anche in caso di sconfitta del rottamatore gli equilibri interni al Pd potrebbero mutare. E non di poco.
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