Preti sposati, una svolta epocale. Per teologi di un’altra epoca
Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Chad C. Pecknold, docente di teologia alla Catholic University of America e firma di testate come New York Times, Wall Street Journal, National Review e First Things. Il testo è apparso originariamente martedì 29 ottobre nel sito internet del magazine cattolico britannico. La versione inglese è disponibile in questa pagina.
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È ben noto che numerosi preti, religiosi, vescovi e teologi attendevano come conseguenza del Concilio Vaticano II un cambiamento nel magistero della Chiesa sulla contraccezione. Tale precisa speranza progressista si infranse però contro le dure verità dell’Humanae vitae di papa Paolo VI, che riaffermarono il magistero permanente della Chiesa. Tuttavia molti dimenticano che l’altra grande delusione per quei fautori anni Settanta dell'”aggiornamento” [in italiano nel testo originale, ndt] riguardò il celibato sacerdotale. “Ammorbidire” il magistero della Chiesa su matrimonio e moralità sessuale andava di pari passo con l’aspettativa che il celibato sacerdotale, come ebbe a predire Karl Rahner, non sarebbe sopravvissuto all’ingresso della Chiesa nella modernità.
Migliaia di preti furono ridotti allo stato laicale subito dopo il Concilio. I seminari e i monasteri furono abbondantemente svuotati, tanto nei numeri quanto nella santità. La carenza di preti fu in parte il risultato di un collasso della fede nel sacerdozio, nei sacramenti, nel sacrificio stesso della Messa. E con il passaggio dei preti allo stato laicale, la partecipazione dei laici divenne la chiave per sopperire al calo del sacerdozio. Per la gioia della satira profana, e di Martin Lutero, talvolta capitava perfino che i preti spretati sposassero ex suore.
Molti però non tornarono allo stato laicale. Molti uomini rimasero preti fedeli e continuarono a pensare che la loro esperienza del Concilio – più “evento” spirituale che dottrina – li chiamasse a mettersi all’opera per un cambiamento più profondo, epocale, tale che avrebbe potuto volerci la loro intera vita per vederlo realizzato. Non era appena la convinzione di uomini e donne ordinari al passo con lo zeitgeist [lo spirito del tempo, ndt]. Questo sentimento giunse fino ai vertici.
Nel 1970, un gruppo di teologi tra i più importanti della Germania scrisse alla conferenza episcopale nazionale, insistendo sul fatto che la riaffermazione del celibato sacerdotale da parte di papa Paolo VI nel 1967, nonostante tanta e tale pressione in senso opposto, semplicemente non bastava. Sostenevano che le gravi riserve del Pontefice riguardo all’ordinazione di uomini sposati (viri probati) non potessero mettere fine della discussione. Insistevano che la Chiesa dovrebbe essere abbastanza certa da potersi permettere un dibattito più aperto e più collegiale sul celibato sacerdotale.
I sottoscrittori, che per la fiducia dei vescovi tedeschi sono stati chiamati come teologi nella commissione per le questioni di fede e morale, si sentono personalmente in dovere di sottoporre ai vescovi tedeschi le seguenti considerazioni.
«Le nostre riflessioni concernono la necessità di un esame urgente e di uno sguardo dotato di discernimento nei confronti della norma del celibato della Chiesa latina per la Germania per tutta la Chiesa universale…
La Chiesa deve disporre di forze missionarie per l’offensiva, laddove ciò sia possibile. In ogni caso, la norma del celibato in vigore fino a oggi non può essere considerata il punto di riferimento assoluto delle riflessioni, al quale qualunque altra considerazione ecclesiale e pastorale debba essere conformata. Se a fronte delle [sue] “gravissime riserve” il Papa stesso evidentemente non rigetta l’idea dell’ordinazione di uomini anziani sposati (“viri probati”) a priori e come semplicemente fuori questione (dopotutto in alcuni casi è già praticata), allora si conferma che considerazioni nuove possono portare a una rivalutazione della norma e della pratica del celibato…
Non abbiamo precetti da dare ai vescovi tedeschi. Ma abbiamo il diritto e il dovere, in questa difficile situazione, in base al nostro ufficio di teologi e al nostro compito di consultori, di dire ai membri della Conferenza episcopale tedesca, con tutto il rispetto per le loro alte cariche e posizioni di responsabilità, che sulla questione del celibato essi debbono intraprendere una nuova iniziativa e non considerarsi dispensati per via della passata prassi della Chiesa né soltanto per le dichiarazioni del Papa».
La lettera era firmata da Joseph Ratzinger, Karl Rahner, Walter Kasper, Karl Lehman e molti altri teologi tedeschi meno noti. Tre di loro sono diventati cardinali, uno è diventato papa. Sebbene in seguito scriverà alcune tra le cose più belle sul celibato sacerdotale, è stato in effetti Benedetto XVI quello che ha fatto di più per allargare il numero dei preti sposati.
Perciò non dobbiamo pensare che la questione dei viri probati – tanto discussa nel recente Sinodo amazzonico – sia in qualche modo il frutto esclusivo del pontificato di papa Francesco. Come ha riportato George Weigel, uno dei vescovi brasiliani incaricati di delineare l’agenda del Sinodo amazzonico ha esclamato con fervore verso la fine del programma sinodale: «Questa è la nostra ultima occasione». In altri termini, questi uomini, molti dei quali riesumati dalla pensione, hanno vissuto le loro intere vite sperando in questa occasione.
Per gli esponenti di questa generazione dell’“evento” epocale, la sensazione dev’essere davvero di trovarsi sul punto di condurre il sacerdozio alla fine che avevano immaginato negli anni Settanta. Ma a quale fine sono arrivati loro? Questa “ultima chance” è anche un “ultimo respiro” per una generazione che ha vissuto sulla speranza del cambiamento epocale? È un ultimo respiro per quanti privilegiano il processo rispetto alla sostanza? È la fine di quella generazione di teologi che considerano l’esperienza umana un criterio molto al di sopra delle scritture e della tradizione? È la fine di una generazione per cui le esigenze del momento sovrastano la contemplazione delle verità eterne, che dedica più attenzione alle statue indigene che alla Beata Vergine Maria?
C’è un’altra generazione, forse per ora inferiore in numero, che vuole rimettere i paletti al loro posto. C’è una generazione che contempla la santa verginità di Cristo stesso, che vede non tanto una norma umana, quanto la superiorità del santo celibato come un sacrificio richiesto giustamente per la predicazione del sacrificio perfetto di Cristo. C’è una generazione siffatta che crede che sarà l’annuncio di Cristo crocifisso a produrre maggior raccolto. C’è una generazione così. Magari non a Roma, ma esiste. E non è al suo ultimo respiro.
Foto Ansa
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