Ciò che la mannaia del governo sulle prefetture non riesce a capire
La pubblica amministrazione è entrata nel mirino di Renzi fin dal primo giorno di governo. In coerenza con l’annuncio, l’ultimo Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge presentato come la chiave di volta per un rapporto fra Stato e cittadino finalmente efficiente e celere. Mi fermo solo su un passaggio di una riforma ampia e ambiziosa: quello dedicato alle prefetture e alle articolazioni periferiche dei ministeri. Esso prevede che restino in vita le prefetture delle città capoluogo di regione, con qualche aggiunta qua e là (si parla in tutto di 40 prefetture sopravviventi), e che gli uffici delle altre amministrazioni siano accorpati, con la gestione unitaria dei servizi strumentali. Presumendo che il presidente del Consiglio faccia sul serio e condividendone lo sforzo nelle linee di massima, è il caso però di riflettere su qualche dettaglio.
Ho trascorso al Viminale otto anni e mezzo. Incontrando centinaia di prefetti, più volte mi sono chiesto come avesse fatto chi mi stava di fronte a ricevere quell’incarico; il “principio delle carte a posto” prevale di frequente su quello della soluzione del problema sottoposto alla loro attenzione; con tante lodevoli eccezioni, non sono e non si rendono simpatici, specializzati – come sembrano – a opporre l’inerzia rispetto a ogni novità, con uno spirito di corpo che è più autoreferenzialità che orgoglio di appartenenza. Tutto ciò però attiene alle modalità di reclutamento, di avanzamento e di formazione: è ragione valida per sopprimere i 2/3 delle prefetture italiane invece che migliorare il reclutamento e la formazione? Ogni prefettura svolge compiti che esigono una distanza corta dal cittadino: si pensi alla cosiddetta depenalizzazione, cioè alle sanzioni che una volta erano penali, ora sono amministrative, e che vengono irrogate da questi uffici; risponde a efficienza che il diretto interessato che voglia far valere le sue ragioni si sposti dal capoluogo di provincia a quello di regione? Si pensi ai beni confiscati o alle pratiche di cittadinanza: è ragionevole un solo ufficio per un’intera regione? Siamo convinti che l’accorpamento cancelli lentezze e ritardi? Non viene il dubbio che un unico ufficio abbia una fila più lunga rispetto a quattro o cinque?
Ci sono modi e mezzi per ridare efficienza alle amministrazioni, in particolare alle prefetture. Alle fine degli anni Novanta fu varato – con enfasi pari a quella attuale – l’Ufficio territoriale del governo, che riqualificava ogni prefettura in una sorta di sportello unico di tutti gli uffici periferici dello Stato, a cominciare da quelli finanziari: non è mai diventato operativo. È utile chiedersi come mai: intanto per evitare che, fra leggi dello Stato e decreti delegati, anche all’attuale riforma tocchi la stessa sorte; e poi per recuperare quel che si può di quell’impianto, che è ancora legge. Ciò che finora è mancato non sono state le riforme, ma la loro applicazione: misure importanti varate dagli esecutivi Letta, Monti e perfino Berlusconi sono rimaste sulla carta perché alcune burocrazie, cui non erano gradite, ne hanno rallentato, se non fermato, i decreti attuativi. Questo vuol dire che una decisa e paziente azione di governo con gli strumenti che si hanno a disposizione – che sono tanti – pesa incomparabilmente di più di una megariforma allo stadio iniziale. Il cui effetto rischia di essere solo la soppressione di larga parte della struttura amministrativa decentrata dello Stato, senza nulla che la sostituisca. A quel punto, sempre presumendo che il presidente del Consiglio faccia sul serio, non funzionerebbe neanche lo spot.
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1 commento
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avete individuato la CASTA DELLE CASTE. e adesso che fare? staremo a vedere se renzi, a capo del partito-stato per eccellenza, avrà il coraggio di affondare il bisturi. ho l’impressione che al dilà dei proclami di facciata, allargherà la pletora dei dipendenti pubblici e metterà sotto il torchio fiscale i lavoratori autonomi.