Pizzaballa

Di Rodolfo Casadei
30 Agosto 2007
Da protagonisti del risorgimento arabo, a fragile gregge in un ambiente sempre più ostile. «Ma i cristiani non spariranno mai totalmente da questi luoghi»

«Sono iniziative positive. Alcuni le hanno accusate di strumentalizzazioni di carattere politico, ma questo è un problema veramente secondario. Il fatto positivo è che finalmente si comincia a parlare nel mondo occidentale del grave fenomeno rappresentato dal deterioramento progressivo e costante della presenza cristiana nel Vicino Oriente». Padre Pierbattista Pizzaballa, da tre anni Custode di Terra Santa, è preciso e misurato come chi sa di essere il depositario di una tradizione plurisecolare che conferisce autorevolezza. Da sette secoli i francescani sono gli inermi difensori, per disposizione della Chiesa cattolica universale, dei luoghi in cui Dio si è fatto uomo e si è manifestata la storia della Salvezza e della possibilità per chiunque lo desideri (compreso il piccolo gregge – sempre più piccolo – dei cristiani locali) di fruirne. Che oggi giudichino positivamente le iniziative per la sensibilizzazione dell’opinione pubblica europea e per la creazione di un Osservatorio sulla condizione dei cristiani in Medio Oriente, non è cosa priva di peso. Così come che accettino di esporsi sul delicato argomento attraverso la persona del Custode.
Padre Pizzaballa, l’esodo dei cristiani dal Medio Oriente è un fenomeno di lungo periodo, già prima del disastro iracheno i cristiani abbandonavano la regione. Quali sono i motivi di fondo di questa tendenza?
Sono tantissimi, a partire dall’instabilità politica ed economica. Quando non ci sono prospettive di sviluppo la gente emigra. È un fenomeno che riguarda anche musulmani ed ebrei, ma in proporzione l’esodo dei cristiani è molto più accentuato. In questa regione ci sono tanti conflitti politici e militari. E c’è anche una tensione religiosa: la condizione di minoranza dei cristiani in società a maggioranza musulmana può diventare motivo di tensione, in Iraq lo è certamente diventato.
Spesso si dice che l’attuale emigrazione dei cristiani dal Medio Oriente non è che la prosecuzione di una tendenza iniziata dopo l’avvio del processo di decolonizzazione della regione, quando le potenze europee, considerate gli “sponsor” dei cristiani locali, hanno concesso l’indipendenza a quelli che sarebbero diventati gli stati arabi. Eppure i cristiani locali sono stati fra i promotori del movimento nazionalista arabo, non sono stati affatto complici dell’imperialismo.
È verissimo. I cristiani sono stati i protagonisti, fino a pochi anni fa, delle cosiddette lotte risorgimentali arabe. Questo è storicamente vero per la Palestina, per il Libano, per l’Iraq, per la Siria. Poi c’è stato un declino. Oggi per esempio i cristiani palestinesi non contano più nulla, politicamente, nel conflitto israelo-palestinese. Perché sono ormai troppo pochi – solo l’1 per cento della popolazione di tutta la Terra Santa – e perché oggi i movimenti arabi di rinascita o risorgimento o come li si voglia chiamare sono tutti di tendenza islamista. Più in generale, il problema è che il mondo arabo-musulmano non fa distinzione fra Occidente e cristianesimo, e con buona pace di tutti considera cristiano tutto ciò che è occidentale. I cristiani locali, consapevoli di questo fatto, si sono impegnati a fondo per non essere associati al colonialismo, e per un certo periodo si sono legittimati come patrioti arabi. Ma in definitiva hanno fallito nel loro intento, come vediamo oggi.
Non è strano che il nazionalismo arabo, pur presentando radici cristiane, sia risolto in un movimento che ha prodotto l’esodo dei cristiani?
Non il nazionalismo come ideologia, ma il suo fallimento: non essendo riuscito a mantenere le sue promesse di sviluppo, ha creato le condizioni che motivano i cristiani, gruppo di popolazione mediamente più istruito e dotato della media, ad andarsene.
Perché la persecuzione dei cristiani in Iraq presenta caratteristiche di crudeltà e ampiezza inedite anche per la regione?
Non sono inedite se risaliamo indietro nel tempo. Comunque quello che succede oggi in Iraq dipende dal collasso delle istituzioni dello Stato, che non è più in grado di esercitare quel controllo sul territorio e sulle persone che è la norma negli altri Stati arabi. Nell’anarchia totale, sono i gruppi tribali e le fazioni che esercitano tale controllo, e lo fanno ripulendo il territorio di tutte le entità non omogenee all’identità del proprio gruppo.
Dunque la pulizia etnica è meno un connotato dell’ideologia islamista, ossessionata dall’idea di una società islamica assolutamente pura, e più un’esigenza del potere tribale?
È tutte e due le cose insieme: il gruppo tribale è definito anche dalla comune fede religiosa dei suoi appartenenti, dalle tradizioni. Tribalismo e islamismo, anche quando si combattono, presentano la stessa logica di azione politica: la pulizia etnica.
A parte i casi di aperta persecuzione come in Iraq, quali sono le più comuni realtà di discriminazione dei cristiani nell’area?
La situazione varia molto da paese a paese, quel che è comune è una pressione psicologica negativa molto diffusa. Con l’eccezione del Libano, dove pure non contano più come in passato, i cristiani accedono sempre più raramente alle cariche pubbliche. Non per disposizioni di legge, ma per una discriminazione di fatto. La legge è uguale per tutti: cristiani e musulmani possono vendere e acquistare le proprietà fondiarie gli uni degli altri, ma è quasi impossibile citare il caso di un musulmano che abbia venduto una proprietà fondiaria a un cristiano.
Quali sono invece gli aspetti positivi della presenza dei cristiani in Medio Oriente più comunemente riconosciuti e apprezzati da chi cristiano non è?
I cristiani sono apprezzati per i loro alti tassi di scolarizzazione, per il loro ruolo nella conservazione delle tradizioni locali e della cultura autoctona, per gli apporti alla letteratura, per la loro funzione di elemento moderatore dei conflitti sociali ed economici. I quartieri cristiani sono considerati oasi di pace dove vale la pena recarsi in cerca di tranquillità e relax. Ma soprattutto i cristiani sono apprezzati per le loro opere sociali, rivolte e aperte a tutti: scuole, ospedali, opere di carità. In alcuni paesi le scuole della Chiesa latina sono state nazionalizzate, ma esistono quasi ovunque scuole cristiane istituite dalle Chiese orientali, e queste sono le uniche scuole dove cristiani e musulmani studiano e crescono insieme su un piede di parità. Molte persone semplici e molti intellettuali si rendono perfettamente conto che l’esodo dei cristiani rappresenta un impoverimento per il Medio Oriente, perché i cristiani sono i custodi di tradizioni e usanze antichissime proprie del territorio, ben antecedenti all’arrivo degli europei, e perché sono un elemento di moderazione, un fattore di mediazione fra parti in conflitto. Senza di loro scomparirebbe una parte insostituibile dell’identità dell’Oriente e un elemento di pacificazione e stabilità della vita sociale.
L’emigrazione dei cristiani palestinesi è dovuta più alle difficoltà create dall’occupazione militare israeliana o alla crescita dell’islamismo estremista fra i palestinesi stessi?
È dovuta a entrambe le cose. La crescita del fondamentalismo islamico fra i palestinesi è anche legata all’occupazione militare israeliana, e l’emigrazione dei cristiani è legata a tutti questi fenomeni insieme, oltre che a dinamiche familiari. Non c’è praticamente famiglia cristiana che non abbia qualche parente residente all’estero, in un Occidente, che fa da calamita e grazie al quale gli altri membri della famiglia, il giorno che decidono di emigrare, si sentono già a casa loro quando arrivano in Europa o in America.
Si ha l’impressione che tutte le Chiese cristiane di Palestina abbiano, nei confronti di Hamas, un atteggiamento più comprensivo di quello che mediamente si trova in Occidente, nonostante si tratti di un movimento di evidente matrice fondamentalista. Per quali motivi?
In genere politici e giornalisti occidentali affrontano le questioni da un punto di vista politico, le Chiese si muovono a un livello che non è quello politico, ma quello religioso, anche se tengono presenti le conseguenze politiche che indirettamente determinano. Le Chiese hanno scuole, ospedali, strutture caritative che non possono e non vogliono chiudere solo perché non amano il governante di turno. La Chiesa deve essere in dialogo con tutti; un dialogo a volte anche dialettico, ma sempre con tutti. L’ambito politico pone delle dinamiche che sono totalmente diverse, ma che non sono le nostre.
Lei prevede che l’esodo dei cristiani si arresterà, o ritiene inevitabile che quasi tutti i cristiani orientali abbandonino i loro paesi d’origine?
È una domanda che ci facciamo tutti: che cosa sarà il Medio Oriente fra dieci anni? Ci saranno ancora cristiani? Io credo che ne resteranno sempre. Quanti e in quale forma, questo non lo so dire.
Dice questo in base a ragioni umane o perché ha fiducia in un progetto di Dio?
Innanzitutto per fede nel disegno di Dio, che non sta lassù sulle nuvole ad annoiarsi, ma opera ed è presente quaggiù. E figuriamoci se non ha a cuore quella che è “casa sua”! Poi c’è l’aspetto umano da tenere presente: anche per emigrare occorrono risorse, e queste i cristiani poveri non le hanno. I poveri resteranno sempre, nella peggiore delle ipotesi sarano loro a mantenere la presenza cristiana in Terra Santa.
È immaginabile una “israelizzazione” della presenza cristiana in Medio Oriente, cioè la creazione di entità politiche autonome tutte di cristiani? Penso alla proposta di creazione di un cantone cristiano in Iraq nella provincia di Ninive, al desiderio di certi cristiani libanesi di istituire un cantone cristiano autonomo sula base di una nuova costituzione confederale.
In forma legale ed istituzionalizzata questo non potrà avvenire. Già ora ci sono in Libano, in Iraq e altrove villaggi di soli cristiani, ma non credo che questo possa diventare uno status legale. Sarebbero, del resto, dei ghetti legalizzati. Quello che sta succedendo e che continuerà a succedere, è che si creeranno naturalmente delle zone di più ampia presenza cristiana, anche se non esclusiva. Ma queste realtà non avranno mai un riconoscimento di tipo istituzionale.
Anche se tale ipotesi ricevesse un appoggio dall’esterno?
Al contrario, questo sarebbe controproducente per i cristiani. Perché confermerebbe l’impostazione di quanti perseguitano i cristiani locali dicendo che sono gli alleati dei “crociati” occidentali.
C’è chi sostiene che la permanenza dei cristiani in Medio Oriente dipende molto dal conseguimento della pace nella regione. Però vediamo che in Libano, dove da anni la guerra civile è conclusa, l’esodo dei cristiani è proseguito in tempo di pace. Ma allora in che rapporto sono fra loro pace, guerra e presenza dei cristiani?
Intanto bisogna vedere che cosa si intende per pace. Pace non è solo assenza di guerra, non è solo non spararsi. In Libano i combattimenti sono cessati, ma le tensioni sono rimaste e condizionano la vita sociale. La pace vera è una situazione di serenità, di libertà di movimento e di riconoscimento reciproco che mancano in tante parti del Medio Oriente. È anche una realtà fatta di stabili opportunità economiche. Se si vive molto meglio a Washington che a Gerusalemme, un cristiano palestinese preferirà andare a vivere in America, il fatto di essere cristiano non basterà per tenerlo attaccato alla Terra Santa in cui è nato.

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