«Piove di più, ma le alluvioni si possono gestire. Così»

Di Piero Vietti
24 Ottobre 2024
Ci sono interventi da fare nel breve e nel lungo periodo. «Impariamo dal Mississippi. Vedo troppo analfabetismo, la politica abbia il coraggio di prendere decisioni». Intervista a Giulio Boccaletti, direttore scientifico del Centro Euro-Mediterraneo per i cambiamenti climatici
Un uomo attraversa la strada allagata dove è esondato il Ravone nella notte tra sabato e domenica scorsi (foto Ansa)

«C’è stato un cambiamento nella natura delle precipitazioni, questi eventi sono effettivamente straordinari rispetto alla media storica e quindi vanno gestiti in maniera diversa», dice a Tempi Giulio Boccaletti parlando dell’ennesima alluvione in Emilia-Romagna dei giorni scorsi. Scienziato, direttore scientifico del Centro Euro-Mediterraneo per i cambiamenti climatici, e autore di Siccità: un paese alla frontiera del clima e di Acqua: una biografia, qualche giorno fa Boccaletti ha pubblicato un intervento sul Foglio per spiegare che dobbiamo prepararci a gestire rischi più alti di quelli a cui eravamo abituati e dando tre consigli pratici a governo, istituzioni e cittadini. Molto realismo e nessuna ideologia.

Piove più rispetto ai decenni passati o è un’impressione ingigantita dalla cattiva gestione del territorio?

Piove di più, e questo ha un’implicazione pratica molto specifica. Mi spiego. Noi questi eventi estremi non li vediamo direttamente, sono “mediati” dalle infrastrutture che abbiamo costruito: l’acqua non si spande per il territorio perché abbiamo fatto degli argini che sono alti tanto quanto le piene tipiche del passato. Ora succede sempre più spesso che con le precipitazioni l’acqua ecceda le dimensioni delle infrastrutture che avevamo costruito.

Cosa si può fare?

Ci sono cose che si possono fare nel breve e nel lungo periodo. Nel breve – parlo di un lasso di tempo che va dall’uno ai quattro anni – c’è un numero limitato di interventi che si devono e posso fare. Intanto bisognerebbe avere una mappatura più esatta possibile dei territori che rischiano di finire sott’acqua.

Non esiste?

In parte sì, ma poi si rimane ogni volta sorpresi, quindi va fatta meglio. Dopodiché l’acqua è incomprimibile, da qualche parte deve andare: va da sé che il modo più ovvio per gestire il problema nel breve è farla uscire dove vogliamo noi. È una pratica che si fa in molti posti, se ne parlava proprio in questi giorni in Inghilterra, nel Sussex. Sostanzialmente si apre un argine in modo controllato e si fanno allagare i campi circostanti. Il nostro problema è che l’Italia ha un territorio altamente produttivo e industrializzato, non abbiamo delle grandi distese dove non c’è nessuno e possono essere allagate. Però è meglio allagare dei campi agricoli – con conseguenze dannose anche a lungo termine, per cui bisogna pensare a compensare economicamente gli agricoltori – che vedere finire l’acqua nelle zone urbanizzate a fare danni molto maggiori sulle persone e le cose. Quindi nel breve secondo me questa è la strada maestra. Il problema è che per farlo serve una gestione dinamica, quindi serve un “proprietario” teorico del bacino che possa dire “interveniamo qua”.

È un modello che funziona altrove?

È quello che succede per esempio negli Stati Uniti con il Mississippi, un fiume enorme gestito dal Genio militare, che costantemente fa mappature dei rischi e accordi preventivi con i proprietari dei terreni che potrebbero essere inondati. Quando la piena supera una certa soglia si fanno brillare delle cariche e si aprono degli argini per far uscire l’acqua in un punto specifico. Hanno imparato dall’esperienza, gli americani: nel 1928 ci fu una grande inondazione del Mississippi che fece migliaia di vittime e danni enormi. Cose così succedono quando l’uomo pensa di poter controllare un fiume: a un certo punto il fiume decide di uscire comunque. Allora negli Stati Uniti hanno messo in piedi un sistema per farlo uscire dove volevano loro, calcolando l’incidenza sul valore dei terreni che avrebbero ricevuto le acque, e compensando i proprietari nel caso in cui si fosse costretti a farlo esondare artificialmente. Nel 2011 è avvenuta una grande piena uguale a quella del 1928 e New Orleans, che sarebbe stata inondata, si è salvata.  

I fiumi dell’Emilia-Romagna potrebbero essere gestiti così?

Penso al mio paese d’origine, Budrio, in provincia di Bologna, colpito nuovamente dall’ultima alluvione: servirebbe un coordinamento con gli altri paesi più a monte, per cui nel momento in cui c’è bisogno qualcuno possa intervenire immediatamente per far defluire le acque prima che facciano danni. Una cosa simile successe a Ravenna nel 2023, quando un agricoltore fece uscire le acque nei suoi campi evitando danni maggiori. Bisognerebbe istituzionalizzare questa pratica.

Alluvione Emilia-Romagna
Gli allagamenti provocati dalla falla del torrente Crostolo a Santa Vittoria di Gualtieri in provincia di Reggio Emilia (foto Ansa)

È così difficile?

La cosa che mi preoccupa è che per farlo servono buona volontà e la comprensione del fatto che non tutti i rischi si possono gestire e cancellare: se non c’è abbastanza spazio per l’acqua, e l’acqua da qualche parte arriva comunque, dobbiamo scegliere cosa possiamo sacrificare. Questo è un discorso difficile, politico. Fondamentalmente però si può affrontare, se una società è matura. Ma se la popolazione continua a parlare solo di fossi che non vengono puliti, di alberi che non vengono tolti, di consumo del suolo, di cementificazione… è più difficile.

Sono falsi problemi quelli?

Sono tutti problemi veri, ma non sono la causa delle alluvioni. Guardando al lungo periodo c’è una discussione che va fatta sul tipo di infrastrutture che servono a fronte di un territorio che ha questo tipo di rischi: il punto di partenza non è tanto l’infrastruttura in sé, ma che cosa si vuol fare sul territorio. Per cui se in un territorio a rischio ci sono zone industriali che nell’arco di vent’anni si possono spostare, magari è bene spostarle. Così come se ci sono delle coltivazioni che verrebbero irrimediabilmente danneggiate una volta allagati i campi che le ospitano, sarebbe meglio spostare quelle coltivazioni. Insomma, è una questione di uso strategico del territorio, bisogna chiedersi che cosa dobbiamo proteggere e solo dopo costruire delle infrastrutture atte a questo tipo di protezione. E poi dobbiamo allenare la nostra tolleranza al rischio: rendersi conto che in alcuni casi l’acqua arriva e non ci puoi fare niente, si evacua e anche questo fa parte della vita. Fare tutto quello che si può fare per gestire al meglio le emergenze e poi sapere che un po’ di rischio rimane.

Come succedeva una volta proprio nella Bassa

Sì, ma è difficile fare questi paragoni, nel senso che le condizioni sono cambiate, siamo una società più ricca, in casa una volta avevamo meno da perdere, ed eravamo una popolazione più giovane. E però non c’è dubbio che parte dell’approccio all’adattamento al nuovo clima – perché il nuovo clima si tratta – è anche una diversa accettazione del rischio. 

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Ma perché tutto quello si potrebbe fare nel breve periodo non viene fatto da politica e istituzioni? 

Nulla di quello che le ho detto è un mistero, vada a chiedere a qualunque autorità di bacino. Il fatto è che abbiamo un problema di analfabetismo generale, e quindi politico. Siamo ossessionati dalla ricerca di un colpevole sempre, pensiamo che se c’è un problema è perché qualcuno ha sbagliato qualcosa. Qui è venuta giù acqua più del normale, e succederà sempre più spesso. La risposta tecnica è quella della pianificazione, lo sappiamo. Poi certo, a fronte di questo l’autorità di bacino oggi ha una segreteria tecnica dimezzata. Non è un dettaglio da poco: quelle mappe di rischio di cui parlavo per essere utili hanno bisogno di modelli da studiare, scrivere, far girare. Il bacino del Po occupa nove regioni, dai fiumi romagnoli che nascono nelle Marche fino ad Aosta. Servono molti esperti, mentre le nostre istituzioni tecniche sono sminuite. In America del Mississippi si occupano 30.000 persone, noi abbiamo un’autorità di bacino che ha la metà delle persone che dovrebbero avere per statuto a cui adesso taglieranno anche i fondi.

alluvione
Vigili del fuoco in azione a Forlì, sabato 19 ottobre

E la gente parla di fossi e tombini da pulire, diceva.

Esatto, ovvio che la politica poi risponde a quel livello lì L’Italia è un paese con una competenza idrologica fenomenale, ma da qualche tempo assistiamo da una parte a uno svilimento del sapere, per cui l’argomento si tratta a livello di opinioni e non di conoscenze tecniche, e dall’altra manca qualcuno che – una volta fatti tutti gli studi necessari – si prenda la responsabilità di decidere quali campi allagare e come compensare il danno economico.

La questione dunque è soprattutto politica

In America si fa l’esproprio in questi casi, e anche in Italia si potrebbe, l’esproprio è un potere dello Stato. Però non si usa, perché poi bisogna prendersi la responsabilità politica. Curiosamente siamo in grado di farlo quando dobbiamo costruire in completa deroga il ponte Morandi, ma non per prevenire le alluvioni. Spendiamo sei miliardi per il Mose ma non quattro miliardi e settecento milioni per proteggere la Romagna.

Perché?

Perché alla gente che non abita lì in fondo non interessa, e chi abita lì pensa che il problema siano i fossi da tenere puliti. La classe politica alla fine risponde di quello che l’elettorato vuole. 

C’è anche un problema di incompetenza, forse 

Non se n’è detta una giusta in questi giorni, da destra a sinistra, a partire da chi nega che le statistiche stiano cambiando a chi se la prende con la cementificazione fino a chi non vede che un sindaco non ha strumenti per gestire un’emergenza così, che va gestita tra sindaci, a livello di bacino. La causa di questo disastro è il volume di acqua caduta, che da qualche parte deve andare, che ci sia il cemento o no. La gestione forestale può cambiare la natura dell’idrologia, però non può far sparire l’acqua. Serve intervenire su tutto, ma sono cose per cui ci vorranno anni: adesso siamo a ottobre, da qui a marzo può succedere ancora che piova così tanto. Quello che io non capisco è perché un paese che riesce a ricostruire un ponte in mezzo a una città in un anno non riesca a mettere insieme i nostri esperti di idrologia e chiedere loro di fare un’analisi di dove può andare l’acqua in caso di alluvione, e a partire da quella studiare una serie di scenari da sottoporre ai decisori politici così che decidano in fretta e tra due, tre, sei o dodici mesi non siamo di nuovo qui a parlare dell’Emilia-Romagna sott’acqua. Si può fare, facciamolo.

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