
Perché Trump e Meloni parlano la stessa lingua

Se anche un giornale tradizionalmente ostile al governo italiano, come Repubblica, arriva a scrivere che l’incontro tra Donald Trump e Giorgia Meloni «poteva andare meglio, forse. Di certo, poteva finire molto peggio», la nostra presidente del Consiglio può dirsi soddisfatta.
«She is great!», ha detto Trump, ricoprendola di elogi. E senz’altro si può dire che Meloni sia riuscita in ciò che altri leader europei nemmeno hanno sfiorato: instaurare un’interlocuzione con l’imprevedibile Trump, portando persino a casa qualche risultato.
Non bisogna dimenticare che l’Alto rappresentante dell’Unione Europea, l’ineffabile Kaja Kallas, non era stata ricevuta dal segretario di Stato Marco Rubio, sebbene fosse volata negli Stati Uniti proprio con quell’intento. Marco Šefčovič, commissario Ue per il commercio, sulla questione dei dazi non ha mai toccato palla, per il semplice fatto che Trump non lo considera un interlocutore. E Ursula von der Leyen, per evitare figuracce, si è prudentemente tenuta alla larga dalla Casa Bianca, “coordinandosi” con Meloni.
Promesse e proposte
Quindi, con buona pace di Elly Schlein e Giuseppe Conte, non si può negare che il viaggio di Meloni a Washington – replicato ieri dalla visita di J.D. Vance a Roma – abbia mostrato al mondo intero (e ai mandarini dell’Ue, in particolare) che la premier italiana può esercitare un certo ascendente sul tycoon statunitense.
Ovvio, nessuna illusione. Meloni è stata furba e pragmatica: ha fatto promesse che sapeva sarebbero state apprezzate (l’aumento della spesa militare al 2 per cento, l’acquisto di gas americano, un piano di investimenti) e ha avanzato proposte, come l’idea di un incontro a Roma per discutere questioni delicate e complesse, come le barriere doganali e il conflitto in Ucraina.

La difficile pace in Ucraina
Per quanto riguarda la guerra nell’Est Europa, la situazione resta complicata, soprattutto per l’aggressivo atteggiamento russo (si pensi solo al terribile attacco a Sumy). Pare che un accordo tra Stati Uniti e Ucraina sulle terre rare possa essere firmato a breve, ma per il resto si registrano solo trattative in stallo. La Russia non vuole un cessate il fuoco, e gli ucraini non intendono cedere territori. Questioni dirimenti – come il riarmo di Kiev, quale forza internazionale debba controllare le “zone cuscinetto”, se l’Ucraina possa entrare nella Nato, e quali garanzie di sicurezza possa ottenere – restano irrisolte. E su questi punti anche la cosiddetta “coalizione dei volenterosi” pare girare a vuoto.
Ne è prova il fatto che, nelle stesse ore in cui Trump e Meloni si scambiavano sorrisi e complimenti a Washington, a Parigi il summit organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron con il segretario di Stato americano Marco Rubio non finiva affatto bene (eufemismo). Ieri, prima di lasciare la capitale francese, Rubio ha dichiarato: «Se non sarà possibile porre fine alla guerra in Ucraina, gli Stati Uniti dovranno abbandonare i loro sforzi e andare oltre» e «dobbiamo stabilirlo molto rapidamente, e parlo di pochi giorni».
Potere senza volto
Anche da questo punto di vista, Meloni può cercare di esercitare un ruolo di “ponte” e mediazione tra le due sponde dell’Atlantico. Nel suo incontro con Trump, infatti, la presidente del Consiglio ha chiarito che «l’aggressore è Putin», ma ha anche convenuto sul fatto che è venuto «il momento di cercare insieme una via d’uscita». E Trump ha riconosciuto che «l’Italia sarà molto utile per risolvere la crisi».
Insomma, rispetto all’agitazione un po’ grottesca del presidente francese, la cautela e il pragmatismo della nostra presidente del Consiglio paiono ottenere risultati più concreti.
La ragione, crediamo, non si spiega solo con la comune appartenenza politica alla destra, ma con qualcosa di più profondo. Quando Meloni dice di condividere con Trump «la battaglia contro il woke», non sta ripetendo solo uno slogan. Sta dicendo che anche lei, come il presidente americano, non è disposta a sottomettersi a quel mondo progressista che, in nome di regole etiche e tecnocratiche, pretende di dirci cosa dire, cosa fare, cosa pensare.
Trump e Meloni parlano lo stesso linguaggio: quello del primato della politica. Che ha come primo postulato l’idea che è sempre meglio confrontarsi con un potere dal volto arcigno, piuttosto che con un potere senza volto.
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