
Perché le campane di Bartellah possano continuare a suonare anche in futuro

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Dalla Piana di Ninive e dalla vicina Erbil arrivano immagini commoventi: le superstiti campane di Bartellah, cittadina siriaca ortodossa strappata al controllo dell’Isis nei primi giorni della campagna per la riconquista di Mosul, suonano a festa per la liberazione; i profughi cristiani nella capitale del Kurdistan iracheno entusiasti per i progressi dell’avanzata e preoccupati per le condizioni in cui troveranno le proprie case.
Due anni e due mesi dopo l’esodo forzato del 2014, la prospettiva del rientro di decine di migliaia di persone messe in fuga dai jihadisti si fa concreta. Ma chi in Occidente già si sente la coscienza sollevata perché infine è resa giustizia, farebbe bene a frenare la propria soddisfazione. La tragedia dell’estate del 2014 che spazzò via 120 mila cristiani iracheni dai loro antichi insediamenti era solo il culmine di un crescendo persecutorio iniziato nell’agosto 2004.
Chi ha condiviso in questi anni le loro sofferenze, sa fino a che punto sia cresciuta in loro la sfiducia verso lo Stato iracheno e la comunità internazionale: molti cristiani iracheni riprenderanno possesso delle loro case nella piana di Ninive solo per venderle e investire il ricavato nell’emigrazione definitiva dalla regione.
L’unico modo di evitare questa catastrofe è promuovere la sicurezza delle minoranze dell’Iraq con un sistema di garanzie internazionali tale da escludere il ripetersi di vicende come quella che ha avuto per protagonista l’Isis, ma che altri potrebbero sentirsi in diritto di ripetere. Per rinunciare alla prospettiva dell’emigrazione i cristiani iracheni hanno bisogno di aiuti materiali, ma soprattutto di garanzie politiche che implicano il coinvolgimento, in buona fede, anche dei paesi occidentali.
Foto Ansa
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