«Per giustizialisti di destra e sinistra l’unica pena è dietro le sbarre»

Di Francesco Amicone
10 Ottobre 2012
Le galere esplodono e Giovanna Di Rosa (Csm) chiede amnistia e misure alternative. Quelle che il ministro Severino si è impegnata a incentivare. Solo a parole

Alimentando nei cittadini una fallace esigenza di sicurezza, che si coniuga con un concetto distorto del giusto e con la spettacolarizzazione della pena, le istituzioni italiane spesso usano il carcere per esigenze che hanno poco a che fare con la pubblica utilità. Per Giovanna Di Rosa, già magistrato di Sorveglianza a Milano e oggi membro togato del Csm, l’eguaglianza fra pena e detenzione è frutto di un ragionamento errato. Il carcere dovrebbe essere usato come ultimo rimedio. Investire sulle misure alternative garantirebbe sostenibilità ed efficacia al sistema penale. A sollecitare riforme in questo senso non ci sono soltanto l’emergenza del sovraffollamento e la presenza di metà della popolazione carceraria in custodia cautelare (quindi ancora in attesa di processo), ma anche le statistiche sulle recidive: a ritornare al crimine sono il 70 per cento dei carcerati a fronte del 20 per cento di chi ha ottenuto pene alternative. Ma al di là delle adesioni formali, poco o nulla è stato fatto perché il principio secondo cui il carcere è una extrema ratio sia realmente applicato.

Cosa ostacola l’applicazione di questo principio?
Nessun investimento, norme contraddittorie e nessuna riforma coraggiosa della giustizia. Inoltre a spingere in una direzione opposta al principio del carcere come ultimo rimedio c’è una cultura che risponde a un’esigenza trasmessa nel sentire collettivo dalle rappresentazioni della stampa, ma priva di fondamento. È il cosiddetto giustizialismo, che ha fatto avvicinare posizioni culturalmente opposte, a destra e a sinistra, che sulla questione carceri convergono in un medesimo discorso sulla giustizia omogeneo, superficiale, dove si ignorano i dati e le peculiarità del sistema penale.

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Secondo una statistica pubblicata qualche settimana fa, gran parte degli italiani sarebbe favorevole al carcere per gli evasori. Non crede che il largo consenso all’introduzione di nuove misure detentive possa prospettare un ostacolo anche alla necessità delle depenalizzazioni?
Sono discorsi che rendono evidenti molte contraddizioni. Da una parte c’è l’esigenza, condivisa ma solo in senso formale, di depenalizzare certi reati; dall’altra la spettacolarizzazione della pena, attuata soprattutto in questi ultimi anni, spinge verso altri obiettivi. In generale, non si considera che oltre alla privazione della libertà, ci sono provvedimenti altrettanto incisivi, che in molti casi si rivelano meno dispendiosi e più efficaci. Per esempio, l’interdizione alle pubbliche funzioni o la sanzione pecuniaria. Non si comprende, non si vuole comprendere l’idea che la pena non è soltanto mandare chi ha violato le leggi “dietro le sbarre”.

Attualmente “dietro le sbarre” ci sono più di sessantamila persone. Vivono in condizioni al limite. A disposizione hanno uno spazio medio inferiore a quello destinato ai maiali negli allevamenti intensivi. Dopo varie condanne da parte degli organi europei, anche il governo ha dovuto ammettere il problema. La scorsa settimana è stato il presidente delle Repubblica, accogliendo una delegazione dei 136 giuristi firmatari di una petizione in favore dell’amnistia (sottoscritta anche da Tempi), ad auspicare un accordo delle forze parlamentari a riguardo.
Dal presidente della Repubblica è arrivata una dichiarazione di supporto all’amnistia importantissima. Per quanto si tratti di un intervento tampone, per ragioni umanitarie, sarebbe indispensabile. Non c’è nulla di sorprendente. Periodicamente si è sempre arrivati a questo tipo di provvedimenti. Si tratta, senz’altro, di una misura estemporanea che pone il problema dell’adozione di misure coordinate che non diano luogo a una situazione episodica in un quadro dove non c’è un strategia complessiva sul sistema penale.

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A parte l’amnistia, quali interventi sono necessari per sanare stabilmente la situazione delle carceri italiane?
La discussione deve partire dal sistema penale e non dal carcere. È l’organizzazione della pena che deve essere cambiata. Il principio è quello di individuare la giusta pena e non il “giusto carcere”. Il numero di detenuti dimostra invece che attualmente il carcere non è considerato come residuale al sistema della pena, ma coincide con la pena. In realtà, sono pochi i detenuti colpevoli di reati di reale allarme sociale e la maggior parte non è pericolosa. In termini pratici, bisognerebbe intervenire da subito, effettuando una scrematura della popolazione carceraria, partendo dai molti arrestati per reati bagatellari, in carcere a scontare tre, quattro, cinque mesi.

La svuota-carceri è stata un fallimento?
È una legge a termine, adottata in attesa dell’attuazione del piano straordinario penitenziario e della riforma complessiva del sistema delle misure alternative. Ha gli stessi problemi di tutti gli interventi timidi e non coerenti di questi anni. Bisogna affrontare una riforma organica. Oltre a incentivare le misure alternative, è necessario procedere con le depenalizzazioni, e infine ripensare alla legge sulla recidiva, che non consente accertamenti sulla pericolosità sociale perché scatta automaticamente e ha portato a chiudere in carcere tantissimi che non lo meritavano.

Il 40 per cento della popolazione carceraria è ancora in attesa di giudizio. I magistrati fanno un uso eccessivo della custodia cautelare?
La situazione richiede un mutamento culturale e un’assunzione rinnovata di responsabilità anche della magistratura, che della custodia cautelare fa senz’altro ampio uso. Però bisogna ricordare che i comportamenti dei singoli magistrati si collocano in un contesto più ampio che risponde a un sistema normativo dove la sicurezza è sentita come prioritaria. L’attenzione politica è orientata al mantenimento di più ipotesi nelle quali la custodia cautelare deve essere assicurata. È prima di tutto questo sistema di norme non chiaro che tende ad aumentare il ricorso alla custodia cautelare.

I magistrati non possono ricorrere anche in questo caso a misure alternative?
Il giudice può concederle, strutturare le misure e aumentare il numero laddove ha un servizio di esecuzione penale esterna. Ciò significa: assistenti sociali, educatori, figure istituzionali che garantiscono il giudice. Il tallone d’Achille delle misure alternative sono il domicilio e il lavoro per chi non ce l’ha. Se una persona deve lavorare per vivere, non può farlo senza retribuzione o qualcuno che provveda al mantenimento. Risulta difficile applicare misure alternative se vi è una carenza di strutture organizzative sul territorio.

Il ministro della Giustizia Paola Severino ha dichiarato di volere promuovere l’uso delle misure alternative al carcere. In che modo è possibile farlo?
Innanzitutto è necessario che le dichiarazioni si accompagnino agli investimenti. Ma attualmente gli operatori che seguono l’esecuzione penale esterna sono quelli con l’organico più lacerato e più ridotto e i tagli si muovono nel contrasto delle misure che si afferma voler promuovere, colpendo quindi soprattutto le misure alternative. In questo quadro non so proprio come potrà essere applicata e a chi la messa alla prova in discussione.

Quale cultura può stare alla base di una politica della giustizia efficace?
Una cultura impostata sui valori di solidarietà e apertura, che crede al cambiamento dell’uomo. Inoltre sarebbe più d’aiuto ricorrere ai pareri degli operatori e all’aiuto delle istituzioni locali, al posto di attuare iniziative estemporanee che poi si traducono in norme che si stratificano in un sistema impazzito.

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2 commenti

  1. pikassopablo

    Amnistia? giustizialisti? a proposito, dicono in giro che abbiano arrestato un assessore di Firmigoni, pare per scambio di voto, con la mafia…uau uau uau…che paroloni…nulla da dire? che cattivi questi giudici comunisti, che cattivi!!!

  2. carmen

    Quest’articolo dovrebbe far capire le reali motivazioni per la quale dovrebbero dare l’amnistia subito!!!!

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