Penati avrebbe meritato un Guareschi invece di un inferno manipulitista
Articolo tratta dal mensile Tempi di novembre
La morte è un momento livido e luminoso. Noi molokani lo sappiamo bene. È una concentrazione di dolore e speranza. Prevale la seconda: la speranza. Perché quando guardiamo alla morte di un nostro caro o di un amico, e persino di chi ci voleva male, è come se si aprisse uno squarcio nel cielo, e vediamo meglio chi era colui che è finito davanti al Supremo Giudice.
Nella cattedrale di Strasburgo c’è un bassorilievo delicato e poderoso. Viene rappresentato il Giudizio Universale. E mentre nella Cappella Sistina Michelangelo raffigura Gesù Cristo come una maestà tremenda, e senz’altro lo è, nella meravigliosa chiesa alsaziana Gesù sorride. Suonano le trombe della chiamata finale, e sorride.
Questo non è un preambolo per introdurre un argomento specifico. Ma è l’argomento specifico ad avermi imposto queste parole. Non dimentico mai che gli amici e fratelli armeni, che hanno accolto la stirpe russa dei molokani, disegnano la croce con radici fiorite. La morte di Cristo atroce fiorisce.
Nessuna superiorità morale
E così in morte di Filippo Penati (1952-2019) mi viene in mente il volto di una persona il cui destino non coinciderà con le ceneri della sua carne. La sua anima neppure sarà cibo per vermi, e oso dire che il suo corpo risorgerà.
Era stato vituperato da tutti. Eppure portava bene addosso il nome di comunista, non al modo astuto dei capi, ma come mi capitava di vederne, tipi così, nel fumo dei bar fuori dalle acciaierie e dai cementifici di Erevan, o dalle fabbriche tessili di Gyumri. Non avevano nulla di sovietico, nel senso di apparato e cappotti pesanti con cui ripararsi dal freddo e dai rimbrotti della coscienza. Penati era stato sindaco di Sesto San Giovanni, non era armeno, neppure comunista armeno, e quando cominciò a salire i gradini di una carriera di amministratore, c’erano ancora gli operai. Penati era sindaco di quella gente lì. Anche quando non c’erano più né la Falck né la Breda, intese come coagulo straordinario di uomini e di passioni, restavano presenti dentro di lui. Insegnava nelle scuole superiori, e militava nelle file del partito. Era un Peppone guareschiano, intriso di umanesimo cristiano, bisognoso di continuo paragone con chi cristiano lo era anche nelle sue espressioni pubbliche. Era un Peppone colto.
In Italia è diventato famoso per le accuse a lui riservate di essere stato il capo del “sistema Sesto”. Un modello di corruzione inventato per pompare risorse verso la Ditta, l’ex Pci, in quel momento gestita da Pier Luigi Bersani. Di quest’ultimo, uomo della sua stessa pasta, Penati fu segretario organizzativo. Posso dirlo in coscienza: Filippo era una persona specchiata. Lo conobbi, lo frequentavo prima durante la mia seconda vita in Italia, condotta tramite Avatar. Non aveva lo sguardo risentito di certi compagni che disprezzavano il diversamente pensante, quasi che l’altro fosse un essere moralmente inferiore, da trattare al massimo con condiscendenza opportunistica. Che bel sindaco fu. Da presidente della Provincia cercò di difenderne gli interessi economici, magari calcolando male, ma certo in buona fede. Era fazioso come i bravi compagni, quando si discuteva, ma non era di parte quando c’era da difendere il popolo e le buone cause. Ricordo quando abbandonava il tavolo e i suoi commensali per venire incontro a chi scriveva e militava in una compagine che altri della sua parte detestavano fin nelle viscere. C’era il riconoscimento senza bisogno di parole di un ethos comune, qualcosa che è più dell’etica, ma ne sta a fondamento: quelle due o tre cose senza cui non saremmo uomini, lì dove sorgono le domande essenziali e il bisogno, la necessità di cercare risposte anche in politica, volendo bene alla gente, commuovendosi per i propri fratelli uomini e le sorelle donne e pure i bambini.
L’ultima causa per cui lottare
Il processo per corruzione lo offese profondamente. Ci sono cose più pesanti del carcere ed è lo sfregio alla reputazione. Si difese con coraggio in tribunale a Monza, che era anche la sua città natale. Com’è capitato a molti, il virus iniettato a tradimento nell’anima, quello di essere un ladro e di aver tradito la buona fede dei cittadini, si trasformò in un cancro che ammazza. Gli italiani hanno in mente la vicenda di Enzo Tortora: la stessa infezione è toccata a Penati. Noi molokani russi ricordiamo Aleksandr Solženicyn: anch’egli ebbe il cancro, era spacciato al confino oltre gli Urali, ma misteriosamente ne guarì e campò ancora più di cinquant’anni. Io credo che per Penati sia stata la morte a dissolvere quel cancro. Gli ultimi suoi anni sono stati una testimonianza di lotta non per la Causa in generale, ma per piccole e semplici grandi cose quotidiane. Si fece fotografare ancora pochi mesi prima della sua dipartita smagrito ma allegro, con la coppola in testa a nascondere la caduta dei capelli per la chemioterapia, senza vergognarsi di dover usare la carrozzina per scoprire che la città non è pensata per i deboli ma per i forti. E da lì la sua ultima battaglia: il suo invito ai sindaci di provare a girare le città dal punto di vista di chi deve farsi spingere su un attrezzo che ciascuno di noi crede sia sempre destinato agli altri.
Un ricordo personale
I giornali hanno scritto che in parte Penati è stato assolto, in parte prescritto, e che comunque la Corte dei conti lo aveva condannato a un risarcimento milionario.
Quando era potente mi capitò di imbattermi nella sua capacità di vedere oltre le apparenze. E qui mi riferisco alla mia personale vicenda raccontata quando mi facevo chiamare Boris Godunov sempre su Tempi. Fu nel 2006 che, caricato di accuse in merito al rapimento di un imam in odore di terrorismo, fui oggetto con la mia famiglia di una serie di intimidazioni molto pesanti di una frangia delle Brigate rosse. Non si mosse nessuno tra i politici a manifestare solidarietà pubblica. Ci pensò un ex (?) comunista, Filippo Penati, a quel tempo presidente della Provincia di Milano, giunta rossa.
Sono cose che tirano su il morale, allora e sempre, e vorrei rendere più lieve la terra a un uomo di antico stampo, che avrebbe meritato un Giovannino Guareschi a raccontarne vita e morte, e non un mediocre Molokano.
Foto Ansa
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