Pazigyi è come Bucha: non si può più ignorare la guerra in Myanmar

Di Aung Kyaw
27 Aprile 2023
Il bombardamento dell'11 aprile del piccolo villaggio da parte del regime birmano rappresenta il più grande massacro dal colpo di Stato del 2021. Nonostante la giunta militare semini terrore e morte, la resistenza democratica avanza
Un bambino rimasto ferito dopo l'attacco del regime al villaggio di Pazigyi

Sono quasi le nove del mattino dell’11 aprile quando il gruppo di medici con cui collaboro arriva a Pazigyi, nella parte nordorientale del Myanmar. È quasi un’ora dopo il bombardamento: quanto di meglio sia possibile considerato quanto il luogo sia remoto e le condizioni sul terreno. Ad accoglierli uno scenario apocalittico. Poco dopo le sette e mezza un jet della giunta militare sganciava due bombe sul villaggio, stimate in circa 250 kg di esplosivo, con l’epicentro a circa trecento metri da un monastero. Pochi minuti dopo un elicottero militare scendeva sul villaggio, sparando sui sopravvissuti con pallottole da 30mm di diametro. L’elicottero sarebbe tornato alla sera, per sparare a sopravvissuti e soccorritori – facendo fortunatamente pochi danni: a quell’ora i soccorsi erano stati conclusi.

La strage dei bambini in Myanmar

Alla fine della giornata si conterranno 168 morti – il computo non è ancora finito: molti cadaveri sono in condizioni tali da non poter essere riconosciuti. Di certo ci sono 40 bambini – il più piccolo un neonato di 8 mesi – e 24 donne. Oltre 100 i feriti, di cui sedici gravi. Si tratta della strage con più morti accaduta in seguito al colpo di stato attraverso cui si è insediata la giunta militare. L’11 aprile era un giorno di festa a Pazigyi. Non si trattava solo dell’inizio delle cerimonie per festeggiare il capodanno birmano: la comunità, poche centinaia di persone, inaugurava quello che si potrebbe considerare un piccolo municipio. Pazigyi è infatti nei territori liberati e il piccolo municipio avrebbe fatto riferimento al “Governo di Unità Nazionale” che guida la resistenza democratica.

Come da tradizione birmana, l’inaugurazione di un edificio comunitario veniva accompagnata da una cerimonia di apertura, anche per raccogliere fondi per lo sviluppo della comunità. I bambini avevano organizzato le danze, mentre i genitori preparavano da mangiare per tutti. L’evento si svolgeva nel primo mattino, considerato che questo è il periodo più torrido della stagione secca. Quando la comunità stava facendo colazione è iniziato il bombardamento.

Corpi smembrati e bruciati

È nel primo pomeriggio che iniziano ad arrivarmi le prime fotografie dell’accaduto. Avevo sentito dell’incidente, ma l’avevo in qualche modo declassato al “solito” bombardamento contro i civili. Sono quasi quotidiani e, come vuole l’adagio, ci si riesce ad abituare a tutto. Quel giorno ero occupato con gli avvenimenti al confine con la Thailandia, nel tentativo di sostenere, insieme con diversi gruppi locali, l’ondata di migliaia di profughi in arrivo dallo stato di Karen, dopo l’intensificazione degli scontri fra la Guardia Frontaliera (alleata della giunta militare) e i gruppi partigiani, nel loro tentativo di bloccare le attività illecite (fra cui il traffico umano e la riduzione in schiavitù) da cui la Guardia Frontaliera attinge i propri finanziamenti.

Quando vedo le prime foto da Pazigyi il telefono mi trema fra le mani e gli occhi si fanno lucidi. Ho visto e documentato, negli ultimi due anni, innumerevoli immagini raccapriccianti che testimoniano crimini contro l’umanità commessi dalla giunta militare, ma raramente così intense. Ci si abitua a tutto, forse, ma a questo non mi sono ancora abituato.

Corpi smembrati e bruciati. Braccia, gambe, torsi sparpagliati in mezzo a macerie fumanti. I medici mi mandano, per documentarle, foto di un tipo di ferite da esplosione che fino a non molto tempo fa non pensavo nemmeno possibili sul corpo umano. Mentre scorro le immagini già penso come quei corpi, quei pezzi di corpi, diventeranno presto fredde statistiche. E come, inevitabilmente, tormenteranno le mie prossime notti.

In attesa che sia processata la giunta militare

Fotografie e video vanno salvati in modo sicuro, catalogati e protetti. Serviranno, in futuro, per i processi cui i responsabili della giunta militare birmana saranno un giorno sottoposti. O così speriamo. I medici con cui lavoro me le mandano per quello, in modo che le possa far pervenire ai meccanismi che appartengono a quella che viene definita “giustizia di transizione”: i vari strumenti messi a punto dalla comunità internazionale per affrontare crimini contro l’umanità. Strumenti deboli, ma è quello che abbiamo.

Mentre iniziavo a catalogare le foto, i colleghi medici, intanto, si stavano adoperando a salvare i feriti. Fra questi una donna incinta, alla trentaduesima settimana, a cui è stato necessario amputare un braccio. «Tutti i bambini erano andati alla festa e io avevo seguito mio figlio. Ero andata a riprendere mio figlio e mi ero fermata un po’ di più per mangiare qualcosa. Me ne stavo andando quando c’è stata l’esplosione», racconterà poi.

Alla clinica mobile arriva un bambino di otto anni: l’esplosione gli ha causato forti bruciature al torace ma, mentre cercava di scappare, i proiettili partiti dall’elicottero lo colpiscono alla gamba. I medici gliela dovranno amputare, ma si salverà.

La guerra da 34 mila morti ignorata

In luoghi come Pazigyi, la comunità internazionale, le organizzazioni non governative e tutta l’architettura umanitaria internazionale non ha alcun accesso. A supportare la popolazione sono solo gruppi locali, come i medici con cui lavoro: membri del movimento di disobbedienza civile, nato in opposizione alla giunta militare insediatasi con un colpo di stato. Medici che da oltre due anni continuano a servire le loro comunità non solo senza uno stipendio, ma braccati dalla giunta militare. Dal giorno del colpo di stato ad oggi, infatti, la giunta militare ha ucciso 70 operatori sanitari e ne ha incarcerati 836 cercando di punire ogni forma di aiuto umanitario che raggiunge le vittime del conflitto.

Dopo il colpo di stato, la giunta ha iniziato una campagna militare per assoggettare la popolazione civile che si rifiutava di sottomettersi alla dittatura. Il numero dei morti ha superato i 34,000 (Acled), dato che rende quello in Myanmar il secondo conflitto per mortalità in corso al mondo, subito dopo l’Ucraina. Se si tengono in considerazione altri fattori – quali il diffuso senso del pericolo, l’estensione e la frammentazione geografica del conflitto – quello nel paese è verosimilmente il conflitto più intenso oggi in corso.  Eppure non è soltanto dimenticato: è ignorato. In qualche modo, tutti sanno cosa sta avvenendo in Myanmar, ma nessuno è pronto ad aiutare in modo costruttivo.

La resistenza democratica avanza

La resistenza democratica, tuttavia, sta avendo molti successi. Le aree controllate da forze democratiche – o comunque non sotto il controllo della giunta militare – rappresentano oltre un terzo del paese. Anche per questo la giunta militare risponde con bombardamenti sempre più frequenti, e sta ora iniziando a produrre bombe a grappolo – vietate dalle convenzioni internazionali, ma ormai le violazioni del diritto internazionale sono quotidiane – per terrorizzare la popolazione civile, traumatizzandola fino alla resa.

Quella del terrore è infatti la strategia principale: anche a Pazigyi, nonostante si tratti di un piccolo villaggio privo di interessi strategici, dopo i fatti dell’11 aprile i bombardamenti sono proseguiti. Il 20 aprile il villaggio è stato nuovamente bombardato e un centinaio di case sono state distrutte. La popolazione del villaggio da tempo non è più lì: sono profughi in campi improvvisati sotto il sole cocente di questa stagione. Ma il bombardamento continuo serve ad annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore.

La comunità internazionale aiuti il Myanmar

Sono tanti i modi con cui la comunità internazionale potrebbe rispondere: rafforzare il coordinamento con la resistenza democratica, supportare le organizzazioni della società civile locale che offrono aiuti umanitari concreti, irrobustire il regime di sanzioni economiche per impedire alla giunta militare di finanziarsi e di approvvigionarsi di carburante per i jet, attraverso cui vengono compiuti i bombardamenti a danno dei civili.

Attraverso strumenti di tale natura sarebbe possibile, un giorno, che i sopravvissuti di Pazigyi – come il bambino con la gamba amputata e quello ancora nel grembo di sua madre – possano festeggiare un proprio giorno della Liberazione in Myanmar.

Foto fornita dall’autore

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