
Passaggio in Alpi Cozie
Sarà per il fatto che sono nato giusto prima della “crisi del petrolio del ’73”, -ricordate?- quella in cui gli italiani di città tornavano a scoprire la bicicletta e la candela e alla sera andavano “tutti a letto presto”, sarà per via di quel pasticciaccio là che, nonostante sia venuto su a stà maniera sgangherata, mi sia rimasto dentro un inspiegabile gusto del camminare e una incolmabile voglia di stufa paonazza, di profumo di fumo e di baita. Io sto fatto qui del camminare ce l’ho nel sangue, passerei le giornate a scarpinare, magari per poi arrivare alla capanna di quel matto del Piero o a quella baita là nella mia valle, che non vi dico dove, ma dove ci scappa sempre un bicchiere di vino. Ecco, credo che questa cosa dell’offrire del vino a chi ha sete sia una peculiarità dei piemontesi (ma mica tutti, intendo quelli delle montagne, meglio se occitane) e degli emiliani (intendendo anche qui quelli che stanno al di qua della via Emilia, perchè dall’altra parte si è già in Romagna, e le cose cambiano).
Negli altri posti, invece, prima ti versano l’acqua e poi, dopo, anche il vino, con magari pane e salame; ma dalle mie parti mica è così. Sarà perchè l’acqua da noi è una faccenda seria, che quando esagera combina sfracelli, sarà che in compagnia non si è mai visto bere acqua (e a me la compagnia mette subito sete), sarà perchè si dice, a ragione, che arruginisca, sarà perchè in montagna la gente c’ha poco, però il vino quello non manca mai, sarà che in fondo non è per nessuno di questi motivi, ma sta di fatto che non si è mai sentito di uno sceso dalla Valle senza aver constatato di persona che non stiamo qui a raccontar balle.
E poi l’acqua, quando è inverno, ghiaccia e con il ghiaccio non si scherza più. Su a Elva non c’è famiglia che non ci abbia avuto un morto per colpa del ghiaccio. E dite, avete idea di che cosa voglia dire seppellire tuo figlio, o tuo padre, d’inverno, lassù appena sotto la costa, che di là c’è la Val Varaita, ma bisogna aspettare fine marzo per poterci arrivare. La neve la togli pure, ma quella terra là, dura come la pietra, che per tirarla via ci andrebbe la dinamite, diventa un problema atroce e gli uomini, nel mentre, si rompono la schiena per dar sepoltura a quel disgraziato di Detto, che scendendo a grange Dao per la stradetta a sdrucciolo, proprio là dove fa un brusco gomito sul ciglio dell’Orrido, se ne è volato giù senza un rumore….
….E intanto a guardar la Carla, in quello stato, ti si mozza il fiato e paralizza il cuore e allora la schiena non è niente al confronto e giù a picchiare che almeno passa la voglia di maledire. Almeno quando c’era ancora don Rovera (e questo è schietta verità), che veniva su da Stroppo con quel suo passo pesante da alpino, lui si metteva a battere lento la campana grande e di colpo la terra sembrava che si arrendesse. Lo sapevano tutti. L’eco si dilatava fino alla croce del Chersogno e poi tornava indietro e non era un suono, era uno stato d’animo, anche delle cose, anche della terra. E si poteva dare pace pure ai morti, da cristiani. Bé, come al solito avevo cominciato col parlare di una cosa e ho finito per raccontarne altre, meno allegre. Non importa, ci sarà un’altra volta per dire del mio amico Nino che fa la guida alpina, di Mariuccia e di quella buona persona del Bertu, e di tutte le altre storie, povere storie delle mie parti, di quelle storie che si tirano fuori la sera tra amici, parlando senza donne, e che scivolano via, annegate nell’ultimo sorso di Dronè. Quello che si ferma sempre là, sul fondo spesso del bicchiere e che nessuno beve mai.
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