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Parole perse / Educazione. La fatica di “tirare fuori” un uomo invece di rifarlo da zero

Di Pier Paolo Bellini
30 Gennaio 2024
Si può mettere qualunque cosa nel contenitore, dice Durkheim. Che però deve riconoscere suo malgrado un fastidioso “rumore di fondo”, un “minimo di resistenza”, che è “dato”
Carri armati fermati dal “tank man” in piazza Tienanmen, Pechino, 1989 (foto Ansa)
Foto Ansa

Se oggi usiamo il termine educazione, lo facciamo quasi esclusivamente quando viene a mancare la “buona” educazione, l’ultima responsabilità addebitata alle famiglie (che però sono in via di estinzione). Educare implica un processo un po’ antipatico ai nostri giorni perché presuppone (e-duco) che ci sia qualcosa da “tirare fuori”, non da “mettere dentro”: e siccome sulla prima cosa abbiamo le idee molto confuse mentre sulla seconda abbiamo interessi ormai consolidati, preferiamo oggi parlare di istruzione, formazione, socializzazione (termini molto più adatti a descrivere chi butta oggetti dentro contenitori).

Richard Rorty, filosofo americano, definiva questo processo in termini molto chiari e radicali: «Non vi è niente nel profondo di noi se non ciò che noi stessi vi abbiamo messo; nessun criterio che non sia stato creato da noi nel corso di una pratica, nessun canone di razionalità che non si richiami a un tale criterio, che non sia l’...

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