«Mi prendo tutte le responsabilità… ho fatto tutto da solo»: ha continuato a ripetere così Alex Schwazer mentre si è visto cadere il modo addosso dopo aver tradito se stesso e gli altri, l’allenatore, lo sport e il mondo intero. Caduto nell’illusione di un sogno costruito con l’inganno e pagato a caro prezzo, l’atleta altoatesino espulso dalle Olimpiadi per doping, oggi suo malgrado trasmette un messaggio singolare. Specialmente mentre alle sue dichiarazioni, giudicate semplicemente come la puerile reazione di chi non avrebbe forse potuto dire niente di diverso data la prova certa del misfatto, fanno eco le parole del padre immediatamente in gara con lui nel prendesi sulle spalle tutto il peso di quel tragico errore. «Mi sento colpevole» ha reagito Josef Schwazer, rivelando di aver improvvisamente percepito tutta la propria inadeguatezza nel modo di stare accanto a quel figlio ossessionato dal successo agonistico da raggiungere a qualsiasi costo.
Alex non è una macchina, è un essere umano: questa la dolorosa scoperta di un padre coraggioso e controcorrente nella sua analisi lucida che non usa per accampare scuse o attenuanti per sé o per il figlio, ma per aprire interrogativi, per scrutare gli abissi mai sondati di un’esperienza soffocante, alienante e disumana che aveva irretito persino le relazioni familiari. «L’ultima volta che è partito da qui era distrutto. Forse l’ha fatto per non deludere gli altri… Era schiacciato da un peso che non riusciva più a sopportare», ha dichiarato il papà di Alex denunciando l’ottusa latitanza dal proprio compito.
E mentre i commenti di queste ore mettono giustamente a fuoco soprattutto sconcerto e delusione per la notizia che ha sconvolto il mondo dello sport, rilanciando le prerogative autentiche della competizione sportiva e il dovere della lotta al doping, la cronaca delle Olimpiadi esce dai suoi margini imponendo lo sgomento di un padre.
L’accorato e istintivo “mea culpa” di Josef Schwazer, sembra introdurci nel contesto delineato da Henrik Stangerup che ne L’uomo che voleva essere colpevole profetizza l’avvento di una società dove i contorni della responsabilità personale sono talmente labili da rendere insignificante il peso degli errori, ma anche la possibilità di redenzione dell’esperienza. Noi in quel genere di palude prefigurata dallo scrittore danese siamo spesso immersi: solitamente, la “caccia al colpevole” ci viene facilissima di fronte a problemi e malefatte, ma si connette ad un’infinita serie di imputati – dalla maestra dell’asilo ai prof delle superiori, dalle compagnie devianti ai media sempre diseducativi, alle depressioni del nostro mondo povero di ideali, eccetera – ma si traduce in una sorta di scaricabarile che difficilmente suscita una profonda implicazione personale, il desiderio di una svolta e di un respiro diverso. In questo senso, colpisce la lezione di un padre che “semplicemente” guarda il figlio che l’ha combinata grossa, si accorge innanzitutto del proprio limite e cambia prospettiva. Si pente di aver sempre guardato il suo ragazzo come si guarda ad un campione che deve farcela, che avrà successo, che avrà e darà tante soddisfazioni… e di non averlo mai guardato per quello che è, nella sua umanità grande e fragile al contempo.