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Pansa, che “liberò” il Pci dal mito della Resistenza

È morto il giornalista e autore de Il sangue dei vinti. La sua intervista in cui spiegò a Tempi il suo "scandaloso" libro

Redazione
13/01/2020 - 11:26
Società
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pansa

È morto Giampaolo Pansa, 84 anni, giornalista, firma storica di molti quotidiani e settimanali italiani. Bastian contrario per cromosoma, penna affilata, uomo di sinistra con una grande passione per la storia che lo portò nel 2003 a pubblicare il suo fortunatissimo Il sangue dei vinti, saggio che rileggeva la storia delle Resistenza italiana narrando le atrocità commesse dai comunisti contro, appunto, i “vinti”. A questo ciclo può essere ascritto anche il suo più recente libro sul partigiano cattolico Aldo Gastaldi (Uccidete il comandante bianco) di cui parlò con Tempi in questa intervista (Bisagno, il mio re Artù della Val Trebbia).

Pansa era un “amico” di Tempi, come si può constatare anche da questa intervista video realizzata da Luigi Amicone durante il Meeting di Rimini del 2008, che lo aveva visto tra gli ospiti.

Qui di seguito ripubblichiamo un’intervista che ci concesse nel 2006.

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La sera del 16 ottobre, in questo albergo di Reggio Emilia, alla prima delle presentazioni di La grande bugia, c’è stata bolgia. Dice Giampaolo Pansa che alla dozzina di squadristi rococò hanno reagito le quattrocento persone presenti in sala. Intonando “libertà, libertà!”, «ma guarda un po’ che cosa impegnativa». Anche il popolo, nel suo piccolo, si incazza. Metti che ci scappava un linciaggio. Però alla fine è andata bene così. Gongola Pansa – «tutta pubblicità» – seduto al tavolo di una improbabile “Sala Rosa”. Si accende una si-garetta, «e guai a chi non fuma». Ecco il formidabile ritrattista della politica italiana, autore di invenzioni linguistiche inossidabili. Dalla mitica “Balena Bianca” per dire la Dc. Al fantastico “Splendido Splendente” per dire l’altrimenti definito (sempre dallo stesso genio) “Parolaio Rosso” Fausto Bertinotti. Ecco, grazie ai guastatori travestiti da garibaldini, un fratello che sta per ripartire più carburato che mai per il tour di presentazione del suo nuovo libro. «Domani Bassano, dopodomani Castelfranco Veneto». Milano? «Niente grandi città. Ci vanno tutti. Io no». È fatto così, il “Bestiario” dell’Espresso, il notista politico italiano più scintillante da quarant’anni. L’inviato speciale che ha frequentato tutti i bordelli della carta stampata (dal Giorno alla Stampa, dal Corsera a Repubblica).

Attacca a raccontare i particolari del simpatico agguato “antifascista” all’Astoria di Reggio Emilia: «Guarda, non mi sono nemmeno mosso dal tavolo. Figurati, son 45 anni che faccio questo mestiere. Ero così tranquillo che Cazzullo, che è uno sveglio, mi dice: “Ah, ma questi li hai pagati tu”. Perché questi hanno adottato una specie di tattica vietcong, chiamiamola “vietcong all’amatriciana”, erano in dodici, non sono entrati in gruppo e si devono essere sparpagliati tra il pubblico. O per lo meno così mi è sembrato. Insomma, questo incontro inizia verso le nove e cinque, Aldo fa un’introduzione, mi dà la parola per rispondere a una domanda e non appena mi accingo a parlare questi si rivelano. Dicendo: “Veniamo da Roma” e una quantità di altre cose assurde; uno aveva uno striscione, anzi un lenzuolo sul quale campeggiava una scritta folle: “Triangolo rosso, nessun rimorso”. Poi un altro ha gridato: “Viva Schio”. Ti rendi conto? Perché viva Schio? Ne Il sangue dei vinti c’è un capitolo su questo: nell’estate del ’45, nelle carceri di Schio c’erano molti prigionieri, catturati dopo la Liberazione, in parte fascisti, in parte gente presa così. E tra quelli che sono stati uccisi c’era una signora che non aveva assolutamente niente a che fare né con la Repubblica sociale né con i partigiani, ma aveva affittato un appartamento a un partigiano. Questo non le pagava l’affitto e al primo diverbio con la padrona è andato alla polizia dicendo che lei era fascista: l’hanno portata via insieme a quelli che poi sarebbero morti. Hanno fatto fuori 40 persone, una cifra pazzesca. E questi gridano “viva Schio”». Hanno gridato anche “viva Giorgio Bocca”. «E vabbè. Poi è finita anche più in fretta del previsto». Pansa prende fiato, butta giù un po’ d’acqua e l’ennesimo mozzicone nel bicchiere. «Poi mi ha intervistato una giornalista del Secolo d’Italia che dice che “erano di Indymedia”. Le ho risposto: “Non so di cosa sono, non dirmelo, me ne frega un cazzo di Indymedia. Sono un signore che il 1° ottobre ha compiuto 71 anni, e di qualsiasi cosa siano questi, per me è tutto grasso che cola”».

Sei impegnato in un corpo a corpo con l’agiografia della Resistenza, e lo sei da grande firma di Repubblica e dell’Espresso.

Soprattutto dell’Espresso.

In un contesto non proprio favorevole: il tuo nemico ti ascolta da una rubrica contigua e non è che in redazione si brinda quando esce l’ennesimo tomo “revisionista”. Come hai fatto a sopravvivere?

Prima di tutto perché, al contrario di quello che pensa qualche volta Tempi, questo è un gruppo editoriale i cui giornali come tutti hanno certamente dei vincoli, ma in cui sopravvive benissimo il punto di vista di ciascun giornalista. Specialmente di uno che ha lavorato molto. Io sono arrivato a Repubblica nel ’77, quasi 30 anni fa. Ho fatto il vicedirettore di Scalfari insieme a Gianni Rocca e il condirettore di ben tre direttori dell’Espresso: Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi e Daniela Hamaui. Oltretutto sono anche un signore che ha anche una buona rubrica, il “Bestiario”, che è molto letta, e sono un professionista. Voglio dire: sono sempre sopravvissuto. E bene. Perché? Perché non mi sono mai posto il problema se sopravvivevo o no: sono il classico cane sciolto. Non ho mai avuto una tessera di partito. Mai chiesto una direzione di giornale. Quando me ne hanno offerte ho rifiutato. Mai chiesto posti in Parlamento. Non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello. No. Non ho debiti professionali né morali, né tanto meno finanziari, con nessuno.

E veniamo alla tua passione per la guerra partigiana, la guerra civile.

Ho cominciato ad occuparmi come lettore di queste cose a 16 anni e mezzo. Poi è successo che il mio vecchio maestro di lettura, il libraio Romeo Giovannacci di Montereggio, un giorno mi ha detto: «Tu, che vuoi fare il giornalista, leggiti ‘sto libro e imparatelo a memoria». Era I 23 giorni della città di Alba di Fenoglio. Uno dei libri che mi hanno portato lungo questa strada. Poi, quando ero ancora una matricola di Scienze politiche, ho detto al mio amico Gianni Zandano: «Scusa, ma hai visto che roba c’è? C’è un bando di concorso, uno di Alessandria e uno della Provincia di Vercelli. Tu sei vercellese di nascita, facciamoli ‘sti concorsi, guadagniamoci ‘sti soldi». Vinto il concorso, un anno dopo mi presento da Alessandro Galante Garrone: «Professore, vorrei fare la tesi con lei». «Ma tu sei uno studente del secondo anno, la tesi si sceglie dopo». «Io però sono già sicuro di voler fare una tesi sulla Resistenza in provincia di Alessandria e ho già un titolo in mente: Guerra partigiana tra Genova e il Po». Mi affascinava Genova, come dice Lauzi, «il sole è un lampo giallo sul parabrezza», e io non ero mai stato in vacanza al mare perché non ero mai stato in vacanza da nessuna parte; in casa nostra non c’erano soldi e in vacanza non si andava mai. «Sai da che parte cominciare?», mi chiese Garrone. «Non solo so da che parte cominciare – risposi – ma ho già cominciato. Ho fatto un concorso». Mi chiese di portargli la monografia e ne rimase meravigliato. Poi quella tesi non l’ho portata avanti con lui, perché Galante Garrone era diventato ordinario di Storia del Risorgimento a Sassari, e al suo posto è arrivato Guido Quazza. Comunque ho dato quella tesi di laurea. E ho preso 110, la lode e la dignità di stampa nell’estate del ’59. Quindi, per darti una data, io sono dell’ottobre del ’35 e allora avevo 23 anni e mezzo. Era di 800 pagine. E già lì dentro c’era già tutta la storia ad esempio di Bisagno. Non della sua morte improvvisa, perché naturalmente il 25 aprile era allora una specie di muro di Berlino, però c’erano già tutti i suoi contatti con l’apparato politico comunista. Stava tutto lì dentro. Io ho anche scoperto, e sono stato il primo a pubblicarla, la lettera firmata da quattro comandanti partigiani delle più importanti divisioni garibaldine di quell’area sulla statale 45 che sovrastava la Pianura Padana, quindi i collegamenti tra Genova e Piacenza, in cui dicevano al comando generale che non volevano più commissari politici, perché invece di occuparsi dei partigiani si occupavano solo di fare propaganda per il Pci.

Quindi ti occupi di Resistenza da sempre.

Mi sono laureato nel luglio del ’59. Nel maggio di quell’anno c’è stato un convegno a Genova organizzato dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione d’Italia. Relatori di extralusso. Bè, comincia la discussione e io intervengo, con l’arroganza tipica dei giovani di provincia soprattutto monferrini (c’è un detto dalle mie parti: ogni due monferrini tre fanno i ladri e uno fa l’assassino). Faccio tutto un discorso distruttivo sulle storie della guerra partigiana che circolavano già allora (ecco la grande bugia, siamo lì, nel ’59). Dico che erano tutte raffazzonate, basate su fonti poco attendibili, un’iconografia quasi religiosa, storie romanzate e soprattutto, dico, non si parla mai dei fascisti. E tieni conto che nella mia famiglia non ci sono fascisti: tutti socialisti o comunisti. Insomma, dico questa cosa sui fascisti, facendo anche un esempio un po’ stupido che però allora mi sembrava intelligente: «È come se in un libro sulla ritirata di Caporetto non si parlasse degli austriaci». Al che si è alzato un signore bellissimo, con i capelli bianchi, era stato il primo sindaco socialista di Genova, pure parlamentare per una o due legislature, che agitando il bastone mi dice: «Vergogna, adesso ai convegni facciamo parlare pure i giovani fascisti». E io, rimasto lì, mogio, mi son detto: «Cazzo, questi mi danno del fascista, ho buttato via una giornata». Finito tutto, il presidente del convegno mi prende in disparte: «Vieni un po’ qua, come ti chiami?». «Mi chiamo Giampaolo Pansa». «Da che città vieni?». «Sono di Casale Monferrato». «Ah, io sono stato dieci anni a Casale perché mio padre era il preside dell’istituto magistrale. Ho sentito bene quello che hai detto e che verrà pubblicato negli atti del congresso: non entro nel merito delle tue critiche alle cose, i giovani spesso hanno un’irruenza che spesso noi anziani non abbiamo. Però hai fatto bene a dire quello che hai detto perché è giusto che un giovane parli. Anzi, sai cosa faccio? Ti do una borsa di studio». Ha preso un libretto degli assegni (me lo ricordo ancora, erano quelli del Credito Italiano, rosa come il colore di questa patente) e mi firma un assegno di 25 mila lire. Era l’affitto di un bilocale in centro a Torino. E sai chi era questo signore? Ferruccio Parri. E che cazzo.

E così, da allora, non ti sei fermato più.

Da allora ho fatto il giornalista, mestiere che mi piace moltissimo. Ho anche scritto tanti libri, forse troppi. Ho fatto tra l’altro la prima Guida bibliografica sulla Resistenza: 1.700 schede, pubblicato dall’Istituto della storia della Resistenza. Sono nato in quegli ambienti e ho sempre avuto la convinzione che le guerre si combattono in due. Se parla solo uno dei due, il racconto è fatalmente un racconto senza contraddittorio. Specialmente se a scriverlo non sono soltanto i vincitori, ma i più forti dei vincitori. E una storia autoritaria che cos’è? È una storia di comodo, piena di zone d’ombra, come dice Giorgio Napolitano, di eccessi, di aberrazioni, di cose non raccontate, di omissioni e di mezze bugie, di falsità. Al punto che La grande bugia è venuto spontaneo.

Ti rimproverano di volere ad ogni costo rivalutare i fascisti. Di concedere al nemico l’onore di avere un volto umano. Troppo umano. Lo sai, no, dove vanno a parare: voltagabbana, traditore, berluscones.

Ascolta, ti do una notizia americana che non è circolata molto in Italia. Riguarda due signori che sono due icone del cinema progressista: Clint Eastwood e Steven Spielberg. Eastwood fa un film sulla battaglia di Iwo Jima, americani contro giapponesi in un’isola decisiva nella guerra del Pacifico che viene conquistata a prezzo di perdite enormi da entrambe le parti. Lì fu scattata la famosa foto dei marines che piantano la bandiera americana sullo scoglio più alto. La storia è tratta dal libro di uno dei figli di quei marines che in Italia non è ancora arrivato, Le bandiere dei nostri padri (dopo i buzzurri dell’altra sera ho detto a Gian Arturo Ferrari di Mondadori: «Cosa aspetti a tradurlo?»). Ma non si tratta del consueto film di guerra americano. Cosa hanno fatto quei satanassi di Eastwood e Spielberg? Hanno girato un secondo film sulla battaglia di Iwo Jima, vista dalla parte dei giapponesi, con attori giapponesi, recitato in giapponese. Racconta la stessa storia ma sulla base delle lettere che i nipponici scrivevano alle famiglie prima di morire. Il primo film sarà presentato in prima mondiale il 20 ottobre, l’altro prima di Natale a Tokyo. Ai giornali Eastwood ha detto quello che ha sempre detto Pansa: se la storia la facciamo raccontare solo a chi ha vinto, che cazzo di storia è? Anche lui un servo di Berlusconi? Un voltagabbana, traditore? No, una persona normale che fa un ragionamento che fanno in tanti.

Hannah Arendt diceva che per evitare le catastrofi totalitarie occorre che gli storici, i giornalisti, i poeti, facciano il loro mestiere di montare la guardia ai fatti. Lo sconvolgente è che ancora nel 2006 il problema non sono i fatti, ma le opinioni.

E gli anatemi.

Come te lo spieghi?

Sai, questa cosa viene soprattutto dalla sinistra. E te lo dice uno che si considera ancora di sinistra, anzi, di una sinistra riformista. La prima volta che mi capita di incontrare Fassino glielo dirò: scusa Piero, tu ti batti per il partito democratico, che secondo me non si farà mai, ma una sinistra riformista, se non è neanche revisionista, che cazzo di sinistra è?

Mi pare che a Fassino tu abbia già provato a dirlo, una sera.

No, perché questo slogan non mi era ancora venuto in mente. Quella sera famosa fu Fassino a dirmi: «Per favore Giampaolo, dì qualche parola per lisciare il pelo a questi partigiani». E io gli ho risposto: «No». «Perché no?». «Perché non li stimo».

E lui?

Piero è un uomo pratico. Ieri l’ho visto lavorare contro il terrorismo a Torino, oggi non so su che strada porterà il suo partito e se stesso. Però so che il problema della sinistra in Italia è che la sinistra non c’è più.

Però ci sei tu, Giuliano Ferrara, posti come il Meeting di Rimini, e c’è gente come te, anche a sinistra, che cerca di dialogare sui fatti.

E soprattutto rispettando gli altri. Cioè quelli che non sono uguali a te. Io non so un cazzo di islam. Una volta leggevo il Foglio con divertimento, ma adesso che Giuliano fa queste pippe interminabili su religioni, preti, io salto tutto. Sono stato chierichetto. E iscritto all’Azione cattolica. Poi vabbè, mi sono staccato dalla religione, sono un agnostico. Però sai una cosa, anche se non mi inviteranno mai al Meeting di Rimini, io prego. Prego i miei genitori Ernesto e Giovanna che mi aiutino. Che non mi facciano fare troppe cazzate, che mi proteggano, che mi facciano vivere ancora un po’.

Sono cose che aggiungono solo benzina al rogo su cui i Bocca e i Luzzatto brucerebbero i tuoi libri.

Ah, Luzzatto, il signor ghigliottina: ci ho fatto anche un dibattito alla radio l’altro giorno. Non sapendo più cosa dire se l’è presa con i miei lettori. Ha detto che i miei libri non vengono letti neanche dai fascisti, bensì dal ventre molle dell’Italia.

Questa l’ha pubblicata anche il Corriere. Ma magari è un complimento.

Per me sì, ma è anche vero che uno degli esorcisti è finito in questo libro perché si lamenta che i libri di Pansa vengono venduti anche al supermercato. Embè? Chi va al super è un baluba?

Loro sono moralmente superiori, no? Hanno il “complesso dei migliori”, come lo chiama Ricolfi. O vogliamo dire che sono semplicemente razzisti?

Bravo, l’unica cosa che non ho detto a Luzzatto, e per rispetto del fatto che è di religione ebraica, è: “Tu sei un razzista”. Ma io non ho mai avuto una sola lettera di smentita. Non ti dico cento. Zero. Loro invece si sentono investiti di una missione religiosa. Sono sacerdoti.

Hai scritto che solo la sinistra può riscrivere la storia secondo i suoi tempi e le sue opportunità.

Certo, perché questa è una cosa che gli hanno regalato gli altri. Aveva ragione Giuseppe Parlato, la Dc si occupava del governo, del potere, degli affari e ha lasciato la cultura agli altri. Però adesso, secondo la profezia di Orwell in 1984, la sinistra ha perso il controllo.

Sarà, ma a parte il celebre Veltroni del «non sono mai stato comunista», al di là degli sforzi di qualche dirigente Ds, come scrivi anche tu, i conti con il comunismo non sono ancora stati fatti.

Ma sì, la loro base è quella. Non c’è revisione. E se vai a cercare nei libri di storici comunisti, anche bravi, non c’è nulla. E vogliamo fare la sinistra riformista? Il punto è che l’Italia non è più quella. Vedi, io vado in giro molto a presentare i miei libri. Adesso, per La grande bugia ne faccio 27 di incontri di popolo, e sto notando che accade una cosa che non credo sia effetto dei miei libri, ma una cosa generale: c’è un’opinione pubblica, chiamiamola per comodità “moderata”, che prima non si vedeva. Prima leggeva di meno, parlava meno, non aveva il coraggio di esporsi in pubblico ed era una specie di magma inafferrabile: non capivi chi erano questi qui. E non lo capivi per la semplice ragione che non volevano mostrarsi. Ebbene, ho notato che questo soggetto evanescente è emerso sempre più anche in zone rosse come quella emiliana. E questa cosa è la spia di un fatto clamoroso che abbiamo visto alle elezioni del 9 e 10 aprile. Perché lì, per un pelo di gatto, per 25 mila voti, si è evitato il crack. Io sull’Espresso ho fatto anche l’unica intervista che Prodi ha concesso ai giornali. E me lo ricordo, Prodi era convinto di stravincere. Fassino era convinto di stravincere. E invece è emerso che metà dell’Italia la pensa davvero in un altro modo.

Sì, ma cinque anni di centrodestra non è che abbiano cambiato granché.

Perché sono stati scemi. Perché io in questi anni ho capito che il centrodestra è pieno di incompetenti. Pieno. Io ho fatto nel 2003 Il sangue dei vinti: è pieno di nomi, ma fosse venuto in mente a qualcuno di An di cercare il figli, le vedove, i nipoti, di togliere il monopolio dell’argomento a Giampaolo Pansa. La destra che ha fatto? Un cazzo. Quando giravo per presentare Sconosciuto 1945 questi ancora facevano tutta una litania sul fatto che erano sempre stati perdenti. Io ho detto: «Ragazzi siete stati perdenti fino al 2001, ma nel 2001 avete vinto, avevate settimanali, tv, la più grande casa editrice del paese, che è la Mondadori, e che cazzo avete fatto? Nulla». Purtroppo i partiti italiani hanno questa selezione a rovescio. Per cui, non dico che vengono a galla i peggiori, ma tutti sembrano in altre faccende affaccendati. Se ne fregano. Questa opinione pubblica moderata invece è decisiva. Perché poi sono quelli che fanno le maggioranze elettorali. (ha collaborato Caterina Giojelli)

Foto Ansa

Tags: giampaolo pansaIl sangue dei vintiresistenza
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