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Padre Pietro Tiboni, Comunione per l’Africa

Martedì è morto a 92 anni il missionario comboniano che era diventato un punto di riferimento di Cl in Uganda. E che diceva che al centro di tutto era ed è la comunione

Rodolfo Casadei
15/06/2017 - 0:30
Chiesa
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tiboni

Padre Pietro Tiboni, missionario comboniano, era uomo che pensava secondo Dio e non secondo gli uomini, e che viveva della comunione. L’ultima volta che lo incontrai su suolo africano fu nel lontano gennaio 2001. Ero in Uganda per raccontare vittime ed eroi dell’epidemia di Ebola che aveva colpito il nord del paese, proprio la regione dove Tiboni era stato missionario e aveva molti amici. Era morto fra gli altri Matthew Lukwiya, il direttore sanitario che aveva lottano fino alla fine per contenere l’epidemia e che c’era di fatto riuscito; l’epidemia era stata meno distruttiva di quello che sarebbe stato anche per il suo coraggio e la sua determinazione. Rimase al suo posto e incoraggiò gli altri medici ed infermieri a dare il meglio di sé, ma senza obbligare nessuno a restare. Quasi tutti scelsero di lottare al suo fianco, e una mezza dozzina cadde insieme a lui. Di ritorno a Kampala gli chiesi: «Padre Tiboni, come è possibile che Dio abbia lasciato morire proprio un uomo come Matthew Lukwiya, il medico ugandese più bravo, più generoso, il migliore, uno che sapeva mobilitare la gente, che era veramente utile, quello che doveva portare avanti l’ospedale del dottor Corti?». Infatti l’ospedale al centro dell’epidemia di Ebola era il famoso Lacor Hospital di Gulu diretto da Piero Corti (il fratello medico di Eugenio, l’autore de Il cavallo rosso) e da sua moglie Lucille Teasdale, la dottoressa uccisa dall’Aids contratto curando i feriti delle guerriglie africane. Lui mi guardò e con un sorriso disarmante rispose: «Perché Matthew era pronto, perché era molto maturato negli ultimi tempi».

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Tiboni è stato il padre spirituale di Comunione e Liberazione in Uganda, e la cosa è veramente sorprendente, perché incontrò quel movimento in terra africana quando era già missionario comboniano da più di trent’anni se si considerano anche gli anni del seminario. Un missionario già esperto e appartenente a uno dei più sperimentati e prestigiosi istituti, quello fondato da san Daniele Comboni, rimase affascinato dal carisma di un movimento ecclesiale che sul piano della missione ad gentes a quei tempi era un po’ una matricola. Eppure quando nel 1970 il già 44enne Tiboni, espulso dal regime islamista del Sudan (dove era stato missionario per sette anni fra il 1957 e il 1964, insegnando nel seminario nazionale) insieme ad altri 100 missionari e quindi dopo un periodo in Italia ricollocato in Uganda, incontrò a Kitgum un gruppo di giovani medici varesini di Cl che erano lì per fare volontariato internazionale, l’evento fu per lui una rivelazione. Un missionario a vita, professore di filosofia e teologia nei seminari italiani e africani, già confessore della fede in quanto perseguitato dal regime del Sudan che lo aveva espulso, che si lascia sorprendere dall’esperienza di fede di ragazzotti che in linea di principio dedicavano due anni della loro vita al servizio civile sostitutivo di quello militare: incredibile. Due anni dopo, sempre in terra africana, incontrò per la prima volta il fondatore don Luigi Giussani, e da quel momento i due carismi, quello comboniano e quello del prete di Desio, si intrecciarono in un efficace connubio.

Per Tiboni al centro di tutto era ed è la comunione, dono da chiedere continuamente nella preghiera a Dio attraverso Maria, che si realizza e si manifesta nel rapporto di unità fra le persone che riconoscono Cristo come la risposta al desiderio umano. Insieme a cristiani ugandesi di tutte le etnie, volontari italiani e missionari comboniani di varie nazionalità creò il movimento Christ Communion and Life, l’equivalente ugandese di Comunione e Liberazione. «In Africa non possiamo usare la parola “liberazione”», spiegava. «perché alla gente fa venire in mente i movimenti di liberazione con la loro valenza politica e tutto il male e le divisioni che hanno portato». Invece bisognava annunciare e portare qualcosa determinante per il superamento delle divisioni tribali e politiche, che rappresentasse l’inculturazione del cristianesimo in Africa però senza sottomettere Cristo a categorie culturali. Lo spiegò al Meeting di Rimini nel 1984: «La nostra posizione è proprio quella secondo la quale le realtà africane vere sono riprese solo attraverso una proposta chiara. Quali sono le realtà vere tradizionali? È questa unità nel clan, per cui le persone sono uno, e noi abbiamo proposto il movimento proprio in questa categoria; noi diciamo: come secondo la tradizione, quando due fanno il patto di sangue diventano una cosa sola e pensano alla loro unità e per quella sono capaci di dare la vita: così è in CCL. Prima di tutto, nel sangue di Cristo, perché è il sangue che unifica, e poi nello spirito di Cristo, perché il clan sussiste per la presenza dello spirito degli antenati, che sono chiamati i morti viventi. Solo che questo nuovo clan, questa nuova cultura è chiaro che elimina totalmente l’odio profondissimo che c’è fra le tribù, crea una nuova civiltà della verità e dell’amore, su cui si costruisce la nuova realtà. Per cui per noi ha molta importanza il sorgere dell’esperienza di questo nuovo tipo di civiltà, basata sul sangue di Cristo, che toglie le divisioni, e sullo spirito di Cristo, che fa vivere e che crea una nuova realtà di tribù». Ma l’unità nella Comunione non è un prodotto umano, è solo e soltanto un dono divino. Perciò Tiboni scrisse una preghiera di consacrazione a Cristo attraverso Maria che gli appartenenti alla comunità recitavano più volte al giorno, e che fa così: «Maria, tu sei la madre di Cristo, madre della comunione che tuo figlio ci dà, come dono nuovo sempre nuovo e potente, che è un gusto di vita nuova. Attraverso di te, perciò, noi consacriamo tutto noi stessi, tutte le sofferenze che tuo figlio scegli per noi, e la nostra stessa vita, affinché tu diventi la madre della vita. E Cristo doni a tutti gli uomini lo stesso gusto di vita nuova che ha donato a noi».

La sua testimonianza al Meeting del 1988 altro non fu che la lettura di una serie di testimonianze dei suoi figli spirituali che descrivevano la vita di comunione, soprattutto di Rose Busingye, che sarebbe diventata la fondatrice dei Meeting Point per i malati di Aids (l’Uganda in passato è stata uno dei paesi africani più colpiti) e avrebbe preso parte al Sinodo per l’Africa del 2009. «È quella che si chiama la comunione di Cristo», commentò. «Non si può vivere felici, sperimentare la felicità di sé, eterna, infinita, senza un’amicizia che sostenga (non un’amicizia qualsiasi), senza una compagnia con cui poter vivere il mistero di Cristo presente». Nel 2001 ebbe la gentilezza di presentare l Meeting di Rimini il mio primo libro, che trattava della fede in Africa attraverso una carrellata di testimonianze cristiane in situazioni estreme (guerra, malattia, genocidio, stregoneria) e si intitolava Santi e Demoni d’Africa. Il più grosso complimento che fece fu quello di dire che il libro si inseriva degnamente nella tradizione della narrazione missionaria, caratteristica dei tempi di san Daniele Comboni e purtroppo abbandonata per tematiche più ideologiche, disse lui, in epoca contemporanea. Ma anche quella volta insistette che le personalità che io avevo messo in rilievo andavano collocate dentro a una coralità: «Il libro è una galleria di ritratti sui grandi di un continente, cioè presenta persone, (…) che sono venute anche al Meeting di Rimini. Presenta una galleria di ritratti come di personalità; intorno a queste personalità si crea come una rete, un popolo. Non si tratta, quindi, soltanto di personalità da ammirare, ma sono come un seme che cresce in una pianta o se meglio volete in una foresta, perché attorno a tutte queste persone sta crescendo una realtà veramente stupenda. C’è come il crescere di una rete di persone, africane e non, che fanno crescere una realtà che ha un valore sociale e direi anche politico». Negli anni la foresta è cresciuta, e lui ha deciso di restare fra i suoi alberi e le sue foglie fino all’ultimo. Ha aspettato l’ultima chiamata sulla sua sedia a rotelle al Lacor Hospital di Gulu, lì dove si trovano le tombe di Piero Corti, Lucille Teasdale, Matthew Lukwiya. Lui invece riposerà a Kitgum, dove ebbe la sua prima parrocchia ugandese, quella di Cristo Re, e dove incontrò Enrico Guffanti e gli altri medici volontari ciellini nel 1970. Quando sei pronto, quando sei maturato, Dio manda un suo angelo a prenderti.

Tags: africaComunione e LiberazioneLuigi GiussaniRose Busingyeuganda
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