Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola da oggi, giovedì 30 giugno (vai alla pagina degli abbonamenti).
A un amico che sabato sera ci chiedeva per gioco come avremmo votato sulla Brexit se fossimo stati inglesi, abbiamo risposto istintivamente che, molto probabilmente, avremmo barrato la casella del remain, ma che, tutto sommato, non ci dispiaceva affatto che gli inglesi avessero assestato una bella pedata sui denti ai fanfaroni europeisti.
C’è qualcosa di insopportabile nel modo in cui il mainstream, tendenzialmente di sinistra, è subito pronto a glorificare il popolo quando accondiscende ai suoi desiderata e, al contrario, lo denigra quando si smarca. Da questo punto di vista, tutto il mondo è paese, ma certo il paese Italia è un fedele specchio del mondo.
Non erano passate nemmeno ventiquattro ore dalla Brexit che già sui nostri media era partita la fanfara che dipingeva i britannici come dei retrogradi, ammuffiti, imbecilli australopitechi di un mondo barbaro che ancora non s’è sintonizzato sulle magnifiche sorti e progressive di chi ci vuole tutti cosmopoliti, smart e beppeservegninizzati. E Londra che si stacca dal Regno Unito e ritorna europea. E la petizione per rivotare. E Saviano che dà dei fascisti agli inglesi (l’Inghilterra, perdio, la patria di Churchill, ma come si fa a essere così beotamente banali?).
C’è Brexit e Brexit, certo. E chi ha votato per il leave può averlo fatto per mille motivi diversi, alcuni anche molto stupidi, ok. Nigel Farage non è Roger Scruton, e ci siamo intesi. Ma anziché ripartire con la grancassa dei valori europei e con la denigrazione del popolo bue, di certo i nostri illuminati farebbero un gran servizio alla verità se si facessero qualche domandina su che cosa non funziona in questa loro bolsa, pedante e petalosa Europa. Dagli errori si può ripartire, di chiacchiere si muore di tedio.
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