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Non abbiate paura

UN’EUROPA CHE SCORDA LE SUE RADICI, UNA SOCIETà CHE NEGA IL “TU” ANNEGA NEL VORTICE DELL’IO E DEL MULTICULTURALISMO: LA LEZIONE DI GIOVANNI REALE

Emanuele Boffi
22/07/2004 - 0:00
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Giovanni Reale è un maestro. Lo è stato per le migliaia di studenti che lo hanno ascoltato per anni insegnare Storia della filosofia antica all’Università Cattolica di Milano. Lo è oggi per quegli universitari che ne seguono le lezioni alla facoltà di Filosofia del San Raffaele di Milano. Lo è anche per tutti quegli studiosi e appassionati della materia sparsi per il mondo (la sua monumentale Storia della filosofia antica è stata tradotta in tredici lingue, anche il suo Platone in ceco e rumeno). A tener conto di tutti i riconoscimenti che ha ricevuto ai quattro angoli del globo c’è da fondere la calcolatrice. Ma Giovanni Reale è un maestro non solo per tutte le ore spese a spiegare il pensiero di Platone («il mio Platone» lo chiama lui, quasi a contrassegnare una conoscenza ormai familiare), ma soprattutto per la capacità di leggere la situazione contemporanea alla luce di una filosofia non relegata alle pagine bianche dei libri. Il dialogo con lui diventa un continuo intrecciarsi di aneddoti personali ripescati dall’esperienza di colloqui con colleghi, ma soprattutto con giovani, e i grandi temi con cui la filosofia s’è sempre confrontata e cui oggi è chiamata a rispondere. Per cui Reale non si sottrae al commento delle vicende di cronaca: dal problema del multiculturalismo («Idea secondo cui tutte le culture si equivalgono perché non valgono nulla») alla mancata introduzione delle radici cristiane nel Preambolo della Costituzione europea («Una damnatio memoriae»), dalla dissipazione giovanile («Vivono a mezza strada fra l’animale e l’animale razionale») al concetto di persona («Non sono un “io” se non ho in me le tracce di un “tu”»). Tutto questo a partire dalla suggestione che gli ha offerto il titolo del Meeting di Rimini: «Il nostro progresso non consiste nel presumere di essere arrivati, ma nel tendere continuamente alla meta». «È un titolo bellissimo», dice. E questo è solo l’inizio. Buona lettura.

Professor Reale, lei raccontò al Foglio che, in un dialogo avuto con un gruppo di ragazzi, rivolse loro la domanda «da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo?». La risposta fu che a loro interessava solo «godersela» e che la «verità non esiste». Anzi, che se fosse esistita «sarebbe stato peggio». Gli organizzatori del Meeting hanno spiegato che il titolo di quest’edizione è stato tratto da una lettera di san Bernardo ai monaci benedettini di Saint Bertin, in cui il santo li esorta così: «Correte fratelli, perché arriviate allo scopo. Il che avverrà se comprenderete che allo scopo non siete ancora giunti». Possiamo ancora esortarci a correre?
Altro che correre. Siamo tornati indietro. Non solo dobbiamo correre perché non siamo ancora arrivati, ma siamo diventati dei gamberi. La fatica che dobbiamo compiere è più gravosa che non ai tempi di san Bernardo.

Si spieghi.
C’è un brano di Camus in cui si dice che la vita di Napoleone e quella del postino hanno lo stesso valore. Quando lo lessi facevo la seconda liceo e non riuscivo a capire. Poi ho inteso: sono identiche perché valgono entrambe zero. Zero uguale a zero. Oggi siamo a questo punto. Faccio un altro esempio: oggi c’è il problema del nuovo impatto con le culture. Non è un dilemma nuovo per l’Europa, anzi, il Vecchio Continente stesso è nato dall’impatto fra culture, basti pensare ai greci o al cristianesimo. Ma il problema grave oggi (e la reazione di quei ragazzi lo metteva bene in evidenza) è che gli europei non hanno più il senso della loro identità. Di conseguenza ritengono che tutte le culture siano uguali. Donde la famosa questione del multiculturalismo che è affare molto diverso dal pluralismo. Una società pluralista dà ad ogni cultura un valore. Il multiculturalismo, invece, sottintende che tutte le culture siano uguali perché tutte valgono zero. È il postino-Napoleone di Camus.

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All’istituto Agnesi di Milano volevano fare una classe di soli islamici…
Noi dobbiamo essere aperti ai pensieri diversi da quelli europei, ma per fare questo non possiamo svendere la nostra anima europea. Anziché essere noi ad assimilare loro, sono loro che ci stanno assimilando. Questo accade perché abbiamo perso il senso delle nostre radici. Così andrà a finire che avremo un’Europa multiculturale composta da una confusione di isole e di ghetti. Alla fine noi accetteremo le diversità degli altri, ma gli altri non accetteranno le nostre. E questo sta accadendo perché noi non abbiamo più una nostra identità. Con una conseguenza drammatica.

Quale?
Che vincono loro.

Interrogato proprio su questa vicenda dal Corriere della Sera ha spiegato che la nostra arrendevolezza dipende «da un nichilismo di fondo che ci fra credere che tutto è uguale».
Io sono un ammiratore di Nietzsche. Metà della sua produzione è stupenda, l’altra metà è un disastro. Alla fine del Settecento, Nietzsche disse che i due secoli a venire sarebbero stati affetti dalla malattia del nichilismo. In cui la gente avrebbe perso il senso dell’esistenza e avrebbe mascherato questa carenza con degli pseudoideali. Il punto di riscossa è quindi recuperare quegli ideali di cui parlava san Bernardo.

Ma è ancora possibile? Sempre al Foglio lei raccontò di un altro dialogo avuto con un giovane che le disse che se la verità esistesse sarebbe «scomodo».
«Molto scomodo». Disse anche «molto». Perché lo diceva? Perché così, mi spiegava, «se non esiste io posso fare quello che voglio». Molti giovani si comportano secondo quest’idea: voglio fare quel che mi piace, quel che mi è comodo, quel che mi è utile. Lo spendersi, l’impegno gratuito, l’amore (che è uno spendersi gratuito), ormai non esistono più come mentalità. Vanno recuperate le nostre radici, ed è un’impresa tutt’altro che facile.

Quindi come giudica il fatto che nella Costituzione europea non siano menzionate le radici cristiane?
La mia risposta si deve fare qui più articolata perché sono due le nostre radici. Una collega mi ha raccontato che le arrivano dalla Grecia dei dottorandi che non hanno mai letto un verso di Omero o un dialogo di Platone. Che cosa le dice questo?

Che dovrebbero tornare a scuola.
Non solo, perché c’è di peggio. Un altro collega ha citato durante un convegno a Bruxelles dei brani in greco che conosceva a memoria. Al termine, un partecipante greco al simposio gli si è avvicinato e lo ha abbracciato dicendogli: «Lei mi ha commosso, perché, sa, noi siamo diventati dei turchi».

Diceva di una seconda radice…
E’ quella cristiana e il discorso è più complesso. Qualcuno dice che i valori cristiani si sono conservati perché si sono laicizzati e quindi, in modo laico, continuano a esistere. Pensi alla costituzione francese: fraternità non è forse un valore che arriva dalla tradizione cristiana? Come si può negare il passato? Ho ricevuto una laurea honoris causa alla facoltà di Filosofia dell’Università statale di Mosca. Mi hanno portato a vedere la chiesa del Salvatore e mi hanno spiegato che prima l’avevano distrutta per costruirci sopra una piscina. Perché? Damnatio memoriae. È la medesima vicenda della Costituzione. Si vuole cancellare la memoria e quindi non bisogna usare la parola cristianesimo nella Costituzione.

Cosa perdiamo se non inseriamo nella Costituzione il riferimento alle radici giudaico-cristiane?

Se i cosiddetti valori che oggi noi proclamiamo sono sradicati dal cristianesimo ne perderemo il significato, in almeno in tre punti fondamentali.
Il primo è il concetto di persona. Il concetto di persona non c’è in Grecia, nasce col cristianesimo. Perché la persona è il colloquio dell’uomo con Dio. Dio, già nella Bibbia, parla sempre con qualcuno. Quando dice: «Io sono il Signore Dio tuo», ha davanti a sé Mosè. Da questo continuo colloquio con Dio, inteso come persona assoluta, l’uomo diventa persona. Pensi alle Confessioni di sant’Agostino. Agostino non ne è il protagonista, ma il deuteragonista. L’altro è Dio. Se diventi ateo e non credi a Dio, il concetto di persona scompare. Perché il concetto di persona indica un rapporto non solo con Dio, ma il rapporto continuo e strutturale con l’altro, il “tu”. Io non sono un “io”, mio, se non ho in me le tracce di un “tu”, cioè il colloquio, la dinamica di questo colloquio. Tant’è vero che il Dio cristiano non è un uno, ma è una trinità. È un rapporto tra persone. Tutta la difficoltà che si ha oggi nei rapporti, fra uomini e donne, fra marito e moglie, fra padri e figli, dipende dalla perdita del riconoscimento da parte dell’io di un tu. Ecco, nel cristianesimo si dice che se tu non hai una comunità, un rapporto con l’altro, tu non sei persona. Sei persona nella misura in cui hai questo rapporto.

Ma oggi il problema dei rapporti fra le persone non mi pare sia eluso dalla mentalità comune. Anzi, basta guardare i giornali o la Tv, non manca mai il dibattito sulle “questioni affettive” o l’angolo della “posta del cuore”.
È il secondo concetto che volevo introdurre: quello dell’amore. Il concetto di amore è sublime fra i greci, ma nel cristianesimo è ribaltato. Platone dice che l’amore è quella forza possente che ti dà le ali, ti fa volare sempre più in alto e ti fa acquisire cose sempre più grandi. L’amore è tanto più grande quanto più grande è la cosa che tu ami. Straordinario, non è vero? Eppure il cristianesimo ha rovesciato tutto. Lo dice molto bene Kierkegaard: Dio potrebbe anche non occuparsi dello zar ma non potrebbe non occuparsi di un passero, e «di me che sono meno di un passero». Ho fatto questo discorso a un gruppo di giovani e loro: «Ma lei dove vive? Queste cose ormai sono scomparse». Chiesi loro: «E madre Teresa di Calcutta?». Madre Teresa è l’esempio di questo, va a prendere i resti di uomini e li cura. È l’amore donativo, mentre quello greco era acquisitivo. Se si perde questo amore la società si contrae e al posto del concetto di persona avremo quello di individuo, l’individualismo.

Cioè?
Lo dissi sempre a quei giovani: non siete voi che dite che la vita migliore è quella del single? Ecco, ma con quali conseguenze? Oggi è esaltata la vita del single perché dal concetto di persona si è passati a quello di individuo, l’uomo che non è in dialogo con un “tu”.
Terzo e ultimo sconvolgimento portato dal cristianesimo: la sofferenza. L’antichità sapeva che cos’è la sofferenza. Il grande Eschilo diceva che «Zeus ha stabilito una legge molto severa: l’uomo non può conoscere se non soffrendo». Chiesi al grande filosofo Hans-Georg Gadamer perché in Verità e metodo avesse pagine così belle sulla sofferenza. Mi rispose che «non c’è esperienza senza sofferenza». Credeva, razionalmente, che la sofferenza fosse essenziale alla crescita. Questa è una visione del problema secondo una mentalità greca.

Cosa dice di più il cristianesimo?
Dio fa di più: manda il figlio. E fa vedere nel figlio, cioè in sé, soffrendo, qual è il senso della vita. Agostino spiega che i filosofi greci hanno visto che c’è l’aldilà e l’hanno visto anche bene. Ma non avevano lo strumento per attraversare il mare della vita per raggiungerlo. Cristo è venuto da noi e ci ha dato lo strumento: il lignum crucis, che è come la nave che, se afferrata, ci fa attraversare il mare della vita e ci conduce nell’aldilà, senza affondare. Lei capisce che vi è una sacralità della sofferenza che se accettata si trasforma in fattore positivo. Provi lei a spiegare queste idee ai giovani d’oggi…

Perché c’è difficoltà a comprendersi?
Torniamo al discorso precedente. Non ci capiamo perché non abbiamo più un linguaggio comune e questo perché non abbiamo più delle radici comuni. Quando io leggo Nietzsche so distinguere il positivo dal negativo. Un giovane oggi non sa più farlo. Tu non sei nato solo come animale razionale e basta, la tua ragione ha bisogno di una verità per cui spender la vita.

Scusi, ma è un dialogo fra sordi. Quel ragazzo di cui si parlava prima diceva che non gli interessa la verità.
Sì, è una forma di droga intellettuale. Adesso il problema del chi sei, da dove vieni e dove vai, che è il problema centrale dell’esistenza, ha nella testa dei giovani proprio quella risposta di quel ragazzo: non poniamocelo. La gioventù, l’età dell’ottimismo per antonomasia, è diventata l’età del pessimismo. È la nullificazione della personalità. Il nostro lavoro è quindi ridare degli ideali ai giovani. È difficile perché oggi viviamo in un’epoca in cui vige un integralismo terribile. Oggi quando si parla di ossessioni integraliste si intende che la caratteristica di queste sia la loro religiosità. È sbagliatissimo. L’integralismo più pericoloso è quello di carattere ateo, in generale, e illuministico, nello specifico. Oggi prevale questo. Si collega il termine “integralismo” solo al fenomeno religioso senza rendersi conto che quello più pericoloso è quello antireligioso.

Solo qualche mese fa monsignor Carlo Caffarra ha pronunciato un discorso sul concetto di realtà, sulla ragione come fattore di apertura al reale. Ritiene questa via indicata dal vescovo di Bologna utopistica o percorribile?
Credo sia percorribile. Vedo che alcuni giovani si impegnano in questo senso. Ho solo paura che non si tenga lo sguardo alto, ma si abbassi. Da questo punto di vista penso che una riscossa potrà arrivare dall’Est Europa. Le racconto due episodi. A Mosca quando feci la conferenza all’Università statale, al termine mi si avvicinò un collega docente russo che mi disse che da quella cattedra da cui avevo parlato solo pochi anni prima lui insegnava “ateismo scientifico”. Ebbene, due giorni dopo, durante una visita ad un monastero russo notai una lunga fila davanti all’altare della Madonna. Tra le persone con in mano il cero rividi quel professore.
Secondo episodio: ho chiesto al traduttore greco della mia Storia della filosofia antica (cinque volumi, un lavoro immane), perché fosse disposto ad una fatica così terribile. Mi ha risposto: «Perché il comunismo ha fatto il vuoto nell’animo di tutti». Che cosa ci dicono questi uomini?

Che c’è qualcosa nell’animo di ostinato, che non si arrende, che cerca una risposta.
Ecco, in questo c’è la speranza. E in quello che dice Cristo agli apostoli durante la tempesta: «Non abbiate paura, io sono con voi».

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