No logo? Nessun progresso

Di Gaspari Antonio
12 Luglio 2001
«No-global» urla il variegato “popolo di Seattle”

«No-global» urla il variegato “popolo di Seattle”. È convinzione degli antiglobalizzazione che la liberalizzazione dei mercati porterebbe solo svantaggi ai paesi poveri. Non importa agli “antiglobal” di sposare tesi protezionistiche, tanto hanno da tempo acquisito l’etichetta di “progressisti”. Ma quale progresso? Pochi ricordano che la manifestazione di Seattle (novembre 1999) registrò un successo di partecipazioni grazie alla mobilitazione dei sindacati statunitensi i quali volevano impedire un’eccessiva liberalizzazione del commercio. I sindacati Usa si opponevano all’esportazione delle merci provenienti dal Terzo mondo e chiedevano dazi salati sui prodotti dei Paesi in via di sviluppo. I manifestanti difendevano posizioni di privilegio e chiedevano misure protezioniste in difesa di interessi particolari. In Europa troviamo monsieur José Bové, un contadino che da quando ha sfasciato le vetrine di McDonald è diventato un eroe del movimento antiglobalizzazione. Ma Bové è un progressista? Sicuramente no. È un esponente di interessi locali, uno sciovinista che potrebbe reagire con la stessa rabbia contro il vino italiano, i würstel tedeschi, i biscotti britannici. Un altro grande esponente dell’antiglobalizzazione è Jörg Haider. Il governatore della Carinzia ha un programma che non si distingue da quelli del Popolo di Seattle. Haider è contrario alla globalizzazione, rifiuta gli Ogm, è contrario alla liberalizzazione dei mercati soprattutto per quanto riguarda le merci dei Paesi in via di Sviluppo. Il razzismo di Haider è coerente con l’ideologia degli “antiglobal”. Che il movimento antiglobalizzazione non sia affatto progressista è dimostrato anche dalla mobilitazione convinta e militante dei gruppi razzisti di estrema destra. Naziskin e Forza Nuova sono sempre presenti alle manifestazioni antiglobal, si oppongono alla cultura americana, denunciano la cospirazione plutocratica e lanciano slogan antisemiti. Certo la globalizzazione e l’abbattimento delle barriere doganali non è la panacea che risolve tutti i problemi di sottosviluppo. Speculazioni, ingiustizie, sfruttamento indebito, tentazioni colonialiste, sono mali sempre presenti e, aspetto paradossale, la strada intrapresa dal movimento antiglobal, non fa che favorirne il mantenimento. L’Oxfam, una della maggiori associazioni britanniche per l’assistenza ai poveri, ha appena pubblicato un rapporto da cui risulta che la restrizione dei mercati costa alle popolazioni dei paesi in via di sviluppo 2,5 miliardi di dollari ogni anno. Secondo il rapporto a causa della restrizione dei mercati il Bangladesh perde nei confronti degli Usa 7 dollari per ogni dollaro che riceve in aiuto allo sviluppo. Per lo stesso motivo il Bangladesh perde 5 dollari per ogni dollaro di aiuto nei confronti del Canada e 2 dollari per ogni dollaro di aiuto nei confronti del Giappone. Nel presentare il rapporto, Kevin Watkins, ha spiegato che «in merito al commercio, i paesi industrializzati hanno operato una politica di sfruttamento mascherata da una regolamentazione di accesso ai mercati». La vera liberalizzazione dei mercati non può essere l’unica soluzione per lo sviluppo dei Paesi poveri, ma di certo è una proposta migliore delle manifestazioni degli antiglobal.

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