
Nelle ultime righe della sua filippica apparsa sul Foglio contro l’enciclica Fratelli tutti mossa a partire dal punto di vista dell’individualismo liberale, lo scienziato della politica Loris Zanatta, specialista dei populismi latinoamericani, muove a papa Francesco l’accusa di coltivare «il sogno della decrescita» come strada maestra verso una civiltà fraterna.
In realtà nelle 268 mila battute (note comprese) della Fratelli tutti la parola “decrescita” non compare mai nemmeno una volta, mentre compare sette volte l’espressione “sviluppo umano integrale”, ripresa in gran parte dagli interventi di Paolo VI. La stroncatura che Zanatta fa dell’enciclica è senz’altro originale e intellettualmente stimolante (non stiamo dicendo che sia giusta: Zanatta difende l’antropologia liberale!) perché, diversamente da altri critici più o meno seri che hanno accusato l’enciclica di strizzare l’occhio al comunismo o al socialismo e che abitualmente accusano Francesco di modernismo, l’accademico bolognese invece accusa il pensiero sociale del Pontefice di essere antimoderno e controriformista.
L’unico testo pontificio di natura magisteriale dove compare il termine “decrescita” è l’enciclica Laudato si’, nella quale compare una sola volta al n. 193, dove vien detto che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». E per dare maggiore autorevolezza a questa affermazione, viene di seguito citato un intervento di Benedetto XVI: «È necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».
Crepaldi contro il pauperismo
Un paio di settimane dopo l’uscita della Fratelli tutti, sulla questione della decrescita è tornato con toni molto critici monsignor Giampaolo Crepaldi nella sua lectio magistralis tenuta alla III Giornata nazionale della Dottrina sociale della Chiesa: «Sul concetto di decrescita», ha detto l’arcivescovo di Trieste, «pesa ormai una pesantezza ideologica molto evidente. Essa non significa la semplice prudenza economica, ma indica un blocco del progresso e della produzione di ricchezza, come se l’essere tutti più poveri fosse di per sé garanzia di giustizia e pace. Intesa in questo senso, la decrescita ha tutte le caratteristiche dell’utopia, oltre che quelle dell’ideologia. I vari millenarismi e pauperismi eretici che abbiamo conosciuto nel corso della storia esprimevano lo stesso concetto. La Chiesa però li ha sempre contestati e l’operosità dei monaci ha sempre pensato di umanizzare la natura più che di naturalizzare l’uomo». Anche Crepaldi cita Benedetto XVI, «che nella sua Caritas in veritate liquida tale prospettiva dicendo che essa manca di fiducia nell’uomo».
In realtà nemmeno Benedetto XVI usa il termine decrescita. Nel passaggio della Caritas in veritate al quale Crepaldi allude leggiamo: «La tecnica, presa in se stessa, è ambivalente. Se da un lato, oggi, vi è chi propende ad affidarle interamente detto processo di sviluppo, dall’altro si assiste all’insorgenza di ideologie che negano in toto l’utilità stessa dello sviluppo, ritenuto radicalmente anti-umano e portatore solo di degradazione. Così, si finisce per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui gli uomini talvolta orientano il progresso, ma le stesse scoperte scientifiche, che, se ben usate, costituiscono invece un’opportunità di crescita per tutti. L’idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio». (n. 14)
Nemmeno i grillini ci credono più
La dismissione dell’espressione “decrescita felice” e l’abiura del suo contenuto sembrano dunque all’ordine del giorno: ormai nemmeno i leader del Movimento 5 stelle, cioè della forza politica che in Italia maggiormente ha perorato questa causa, la maneggiano più, dopo che i governi ai quali hanno partecipato e partecipano hanno prodotto soprattutto decrescita infelice. Perché allora stare ancora a discuterne, magari facendo dire alla Chiesa qualcosa che non ha detto? Forse perché se la decrescita non è una soluzione al malessere dei singoli e della società, nemmeno lo è la crescita.
Giustamente Crepaldi e Benedetto XVI fanno notare che la crescita materiale non si traduce necessariamente in degrado ambientale e sociale, perché il progresso scientifico e tecnico e la coscienza morale possono sempre guidare la crescita perché contribuisca allo sviluppo umano integrale. Ciò non toglie che il degrado ambientale e sociale del mondo industrializzato e globalizzato siano oggi realtà palpabili; abbiamo fatto già tante volte l’elenco delle ferite gravissime inferte dalla tecnocrazia al creato e alla società nello stesso tempo che miglioravano enormemente gli indicatori della lotta alla povertà, alla fame, alla mortalità infantile, eccetera.
Il prezzo del progresso
Che il progresso materiale si accompagni all’estinzione di specie animali e vegetali su scala senza precedenti, che l’aria e l’acqua si siano riempite di veleni, che l’invasione degli ambienti selvatici primitivi abbia liberato pericolosi virus, che la produzione materiale consumi ogni anno più risorse naturali di quelle che riescono a ricostituirsi, non ce lo siamo inventati. Come non ci siamo inventati che l’aumentata disponibilità di reddito pro capite si sia accompagnata alla banalizzazione del divorzio, dell’aborto, dei nuclei familiari composti da un’unica persona, delle dipendenze di ogni genere, con conseguente crollo delle nascite, delle famiglie stabili, della salute mentale, della coesione sociale, eccetera.
Se proprio si vuole criticare il linguaggio della Chiesa sulle questioni attinenti l’economia e la fruizione dei beni del creato, forse si può fare i pignoli con l’espressione “sviluppo sostenibile”, che suona come una vera e propria contraddizione in termini e che con eccessiva facilità alcuni documenti del magistero hanno fatto propria. All’ultimo Meeting di Rimini il professor Stefano Zamagni spiegava che l’etimologia della parola “sviluppo” mette in primo piano il concetto di liberazione: sviluppo vuol dire liberarsi dal viluppo, cioè da un intreccio di cordami che imprigionano. Ma se sviluppo è sinonimo di libertà, che senso ha per un cristiano appiccicarle l’aggettivo “sostenibile”? La libertà è per il cristiano la condizione che vive chi aderisce alla verità («la verità vi farà liberi», Gv 8,32), cioè non è strumento per qualcosa (definizione riduttiva di libertà) ma pienezza vissuta.
Piuttosto parliamo di integralità
L’espressione “libertà sostenibile” ha senso solo in una prospettiva ateistica, in una prospettiva di autonomia morale dell’individuo: la mia libertà è fare quel che mi pare senza porre limiti preventivi al desiderio, poi a posteriori valuterò se questo distrugge le condizioni materiali e sociali della mia autorealizzazione. Allora limiterò il raggio della mia anarchica libertà, per non far crollare tutto. In questa visione desiderio umano e realtà sono permanentemente in conflitto, col primo che tende a far collassare la seconda. Per cui bisogna fissare dei limiti estrinseci alla libertà (sviluppo) dell’uomo perché non schiacci la realtà: da cui il concetto di “sostenibilità”.
La Chiesa non dovrebbe aver bisogno di ricorrere al concetto di sostenibilità, quando ha già formulato quello di integralità. Lo sviluppo umano integrale è quello dell’uomo che realizza sempre più la sua natura, in un processo mai concluso dove c’è posto sia per la crescita che per la decrescita, a seconda delle circostanze. In poche parole: non è vero che “piccolo è bello”, e nemmeno è vero che grande è necessario e inevitabile. Bello, necessario allo sviluppo umano è ciò che è ben proporzionato. Nelle realtà materiali e sociali la ricerca della giusta proporzione coincide col perseguimento dello sviluppo umano integrale (e non l’equivoco sviluppo sostenibile).
Meglio in francese e in tedesco
Si tratta dunque di recuperare qualcosa della saggezza greca, che definisce l’essere come ordine, proporzione, armonia, «giusta misura» (Platone). Ma anche un autore cristiano problematico come Ivan Illich merita di essere valorizzato quando scrive: «Anche i teorici dello “small is beautiful” non hanno ancora scoperto che la bellezza e il bene non sono una faccenda di taglia, in termini di dimensioni o di intensità, ma una questione di proporzioni». Certo, nel mondo di oggi è più facile incontrare la dismisura che il sottodimensionamento, perciò i richiami al proporzionato rischiano di essere intesi tutti come richiami al piccolo. Ma la vera questione non è l’alternativa fra il piccolo e il grande, la vera questione è il giusto limite, la giusta misura.
Per concludere, vogliano far notare che nella Laudato si’ l’espressione “sviluppo sostenibile” viene usata nelle versioni in italiano, spagnolo (desarrollo sostenible) e inglese (sustainable development), ma non in quelle in francese e in tedesco, dove invece troviamo rispettivamente développement durable e nachhaltigen Entwicklung, che significano “sviluppo durevole”. Queste formule suonano decisamente più cristiane.
Foto Ansa