Niente maschi bianchi, siamo a Hollywood

Di Caterina Giojelli
14 Gennaio 2022
Il woke sta sbranando l’industria del cinema: la paura di offendere dilaga, non puoi più dire niente e se non sei donna, nero, Lgbt o nativo d’America non lavori più. Lo pensano autori, registi e produttori, ma nessuno osa sfidare il dogma

«Shonda e io ricevevamo chiamate a ogni minuto: “Hai un nero così, una donna così?”. Certo, ne ho un sacco. Ma questa è la mia lista, fatevi la vostra. Così, c’erano tutte queste piccole liste e le abbiamo semplicemente raccolte insieme in un unico posto». Shonda è Shonda Rhimes, la produttrice più potente della tv americana e a raccontare l’aneddoto all’Hollywood Reporter è la regista Ava DuVernay, per Forbes una delle «donne più potenti dell’Entertainment» insieme a Oprah Winfrey e Taylor Swift. Quell’“unico posto” si chiama invece Array Crew: è un database aggiornato di tutti i nome di persone di colore, donne e varie categorie “sottorappresentate” che lavorano nel settore: produttori, operatori, art director, tecnici audio. Secondo l’Hollywood Reporter la piattaforma Array Crew «ha cambiato radicalmente il modo di organizzare le produzioni hollywoodiane».

A che serve un database con oltre seimila nomi in cui si può trovare – parole di Duvernay – «un responsabile del funzionamento degli impianti elettrici samoano o un capo attrezzista non binario»? Serve a soddisfare le nuove regole dell’Academy. A fare di Hollywood la grancassa del woke, il “risveglio” americano. In altre parole, serve a suonare le campane a morto sull’industria dello spettacolo.

Donne, neri, Lgbt: il database di Hollywood

Ricordate quando a settembre 2020 uscì il nuovo regolamento per l’assegnazione dell’Oscar nel 2025 come miglior film? I produttori avrebbero dovuto registrare su un apposito portale informazioni personali dettagliate su chiunque fosse stato coinvolto nella realizzazione di un’opera che avrebbe dovuto soddisfare almeno due dei quattro standard di diversità dell’Accademia (qui quella scemenza di regolamento che scandalizzò tutti i giornali). Ebbene alla fine del 2020 i dati di 366 produzioni erano già stati inviati alla piattaforma.

Lo raccontano Peter Kiefer e Peter Savodnik in un grande articolo sulla newsletter di Bari Weiss ricordando che parallelamente la Cbs si dava tempi e obiettivi altrettanto inclusivi e ambiziosi: vincolare almeno il 25 per cento dei suoi investimenti allo sviluppo di progetti di persone Bipoc (Black, Indigenous and People of Colour), annoverare per la stagione 2021-2022 almeno il 40 per cento di autori appunto neri, indigeni o di colore, e per la stagione 2022-2023 far sì che la metà dei suoi autori non fosse composta da bianchi. E sono più di 900 le produzioni che hanno già attinto a piene mani dall’Array Crew di Duvernay.

Non pochi la disprezzano per aver chiaramente sfruttato il clima generato dalla morte di George Floyd, ma nessuno osa criticarla apertamente. «Non sono mica pazzo», ha spiegato a Kiefer e Savodnik uno sceneggiatore tra i moltissimi terrorizzati dal dilagare del “wokeism” a Hollywood: «Abbiamo parlato con più di 25 autori, registi e produttori, tutti si dicono liberali e tutti ci hanno parlato della paura diffusa di scontrarsi con il nuovo dogma – hanno raccontato i giornalisti -. E questo non solo ai vertici di aziende come Netflix, Amazon e Hulu, ma a tutti i livelli di produzione».

Maschio, bianco e disoccupato

Paura di cosa? Di esprimere cosa si pensa e come lo si pensa, di restare attenti cosa si dice e come lo si dice, altrimenti «le persone potrebbero pensare che tu sia un razzista o potresti essere visto come un misogino» (Mike White, regista di The White Lotus); «penso che ci siamo spinti troppo in là. Conosco molte persone di grande talento che non possono trovare lavoro perché non sono nere, native americane, donne o Lgbt» (Howard Koch, produttore di oltre 60 film ed ex presidente dell’Academy); «sono diventato paranoico perfino al telefono. È spaventoso», racconta un autore che vuole restare anonimo per paura di venire registrato e perdere il lavoro; «non è diverso dall’era McCarthy (…) Hollywood non è mai stata anticomunista. Ha solo finto di esserlo. In effetti, Hollywood non è mai stata contraria o pro-niente. Era il mondo dello spettacolo. Non c’è moralità qui», ha spiegato Sam Wasson, autore di The Big Goodbye: Chinatown and the Last Years of Hollywood.

Terrore e malcontento (chiedertelo a quello sceneggiatore 48enne appena abbandonato dal suo agente perché «maschio e bianco») regnano fra gli Studios: ricevuti di persona da uno showrunner troppo timoroso di inoltrare loro le email, i giornalisti hanno visionato direttamente dal suo laptop le discussioni in corso tra addetti ai lavori, agenti, autori, responsabili studio: «È un vicolo cieco: limiteranno la ricerca a donne e candidati Bipoc», «a qualcuno qui non piace l’idea di assumere un ragazzo bianco (…) Odio questa merda», «ora ci dicono che questo lavoro deve andare a una scrittrice/Bipoc. Mi spiace, che schifo».

Il dogma dell’inclusione e del woke sta rendendo la vita a Hollywood tutt’altro che spettacolare. Per gli sceneggiatori osare battute, oscenità, scene indimenticabili, perfino costituire la propria squadra o fidarsi dello staff è sempre più difficile: le risorse umane sono inondate di lamentele contro gli showrunner bianchi e maschi che si sono limitati a fare il loro lavoro. «Sono arrivato al punto di non fare annotazioni sulla sceneggiatura a una donna o persona di colore».

Il woke si è sbranato anche Rocky

La politicizzazione ha sbranato la libertà dei creativi e per un Quentin Tarantino che annuncia non troppo ironicamente il trionfo dell’ideologia sull’arte, sullo sforzo individuale, sul bene e pure sul divertimento (qui la sua partecipazione a giugno da Bill Maher), l’arte paga pegno (nell’articolo per il Common Sense di Bari Weiss si racconta il singolare caso della serie comica Woke). A motivare i creativi non è l’interesse del pubblico, all’85 per cento conta «la paura di essere attaccati sui social media o dalla stampa di Hollywood o dal New York Times», sottolinea uno scrittore e produttore. «Devi essere pazzo per non avere in mente in primis tutte queste questioni razziali, di genere e trans quando scrivi qualcosa. Devi preoccuparti dell’impatto che tutto ciò che fai avrà sulla tua carriera. E questo ha un evidente effetto agghiacciante sulla creatività».

Il rischio, ha scritto loro un importante regista, è però che «il pubblico smetta di fidarsi di noi», che l’ossessione di «rendere ogni film il più woke possibile, rendere ogni relazione un mix razziale, ogni personaggio sessualmente fluido» porti le persone a considerare i film alla stregua di storie ambientate in un mondo fantastico invece che nel mondo che conoscono e in cui vivono, e a ripiegare sui videogiochi.

In attesa di un’enorme class-action, gli intervistati hanno stilato una lista di film ormai “verboten” a Hollywood, da Tootsie (offende i trans) a Rocky (c’è un cattivo nero), dalla sitcom All the family (il protagonista Archie Bunker è chiaramente un elettore di Trump) a South Park (il top dell’inclusivamente scorretto). L’importanza di attingere allo zeitegest ha lasciato il posto all’adesione cieca e impiegatizia ai dogmi del woke, con i suoi nuovi discriminati, le ingiustizie, l’insofferenza. E anche le sue  omissioni: all’interno del nuovissimo e scintillante Academy Museum of Motion Pictures da 484 milioni di dollari, firmato Renzo Piano e inaugurato dalle star con spettacolo di Lady Gaga, «manca qualsiasi menzione del piccolo gruppo di emigrati per lo più ebrei dall’Europa orientale, che ha creato l’industria cinematografica. Le persone senza le quali non ci sarebbe l’industria dello spettacolo». Mentre la comunità tutta paillettes e photo opportunity parlava e brindava a equità e inclusione, gli ebrei, padri fondatori del cinema, «erano stati esclusi quasi dappertutto».

“Hollywood!” di photographerglen, licenza CC BY-SA 2.0

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