
Nicola Matteucci
è scomparso la settimana scorsa, all’età di 80 anni, Nicola Matteucci, un autentico maestro e sicuramente il più autentico liberale in cui mi sia mai imbattuto. Il nostro primo incontro avvenne nelle aule dell’università, a Bologna. Frequentavo il secondo anno e quel professore, assai noto in quanto uno dei fondatori del Mulino, teneva il corso istituzionale sui classici del pensiero politico e il corso monografico su Max Weber e Benedetto Croce. Al termine della lezione, io e un mio amico alzammo la mano per fargli una domanda e lui disse: «Fate bene a fare domande: voi avete un anno per farle, e risponderò a tutte; io ho mezz’ora all’esame, ma il voto lo do sulle mie domande. Quindi fatele, perché non è stupido chi fa domande, ma chi non le fa». Così non c’era lezione in cui noi due, unici tra tutti gli studenti, non le facessimo. Una mattina facemmo una domanda su quello che aveva spiegato il giorno precedente (relazione allo scopo e relazione al valore in Weber) che contestava le affermazioni del pensatore tedesco. Matteucci ci guardò e disse: «Vi ho detto che fate bene a domandare. Devo anche dire che se sono in grado di rispondere, rispondo. A questa domanda non sono in grado di rispondere, perciò vado a casa e studio. Ma vi avverto che non saprò rispondere neanche domani, perché per rispondervi ci vorrebbe un filosofo e io sono uno studioso del pensiero politico, quindi quello che posso fare è un excursus del concetto di valore nel pensiero filosofico». Raccolse i suoi appunti e se ne andò. La lezione era iniziata da soli dieci minuti. All’uscita, i compagni di corso ci aggredirono verbalmente, sostenendo che dovevamo smetterla e lasciare che il professore facesse le sue lezioni. Matteucci, avanti nel corridoio di qualche metro, si girò, mi guardò e allargò le braccia. Fece altri tre passi, poi tornò indietro dicendomi: «Guardi che, se vuole, cambio il corso e lo faccio su quello che interessa a lei». Risposi che quello che faceva andava benissimo e che gli avrei fatto domande comunque. All’esame, mi restituì il conto con gli interessi, interrogandomi per circa un’ora e mezza su tutto.
Nacque un rapporto che durò nel tempo. Io gli regalavo i libri di don Giussani e ne discutevamo insieme; facevamo battaglie per migliorare la didattica in consiglio di facoltà e, soprattutto, il corso di laurea. Una mattina lo ringraziai per un suo editoriale che asseriva che se in università c’era libertà era grazie a Cl e ai Cattolici Popolari; sosteneva che, dopo il ’68 e il ’77, tutti erano spariti, tranne noi che, continuando a essere presenti, avevamo costituito la possibilità di una presenza per tutti. Questa idea di libertà come fenomeno concreto, sociale e visibile contro ogni ideologia statalista era il cuore della sua ‘filosofia della pratica’.
Un giorno, il cardinal Biffi chiese al Centro culturale Manfredini e al San Domenico di presentare il volume che raccoglieva le sue lezioni ai docenti. Monsignor Maggiolini avrebbe introdotto l’incontro, noi avremmo indicato altri due relatori. Io proposi il professor Matteucci. La sera prima della presentazione lo cercai: mi dissero che era influenzato. Il giorno dopo, idem. Rassegnato mi stavo avviando verso l’Archiginnasio, quando lo vidi comparire. Mi disse: «Ho la febbre alta, ma non potevo mancare». Iniziò scusandosi perché non avrebbe parlato del libro, non sentendosi competente dei temi trattati. Parlò invece dei suoi maestri e del loro pensiero sulla Chiesa. Iniziò con Machiavelli, proseguì con Tocqueville, con l’ultimo Croce, con Von Hayek. Fece una lezione magistrale in cui affermò la sua idea di laicità dello Stato: uno Stato che riconosce le identità e ne valorizza le espressioni sociali.
Un professore e un liberale autentico, dicevamo. Al cui pensiero non era forse estranea la storia della sua famiglia. Discendeva infatti da Giovanni Acquaderni, il leader del movimento cattolico dell’Ottocento e primo presidente dell’Opera dei Congressi.
*presidente Compagnia delle Opere
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