Ho molto rispetto per la decisione dei superstiti di Charlie Hebdo di sospendere le pubblicazioni. Ho molto rispetto della loro decisione successiva di riprenderle. Non so se hanno ceduto al ricatto morale: qualcuno era arrivato ad accusare di viltà “il resto” di Charlie. Non sono d’accordo su questo giudizio morale di codardia e neanche sulla presunta vittoria postuma degli assassini se avessero deciso lo stop. In questo fermarsi di disegnatori e redattori e poi nel ripensarci io vedo la superiorità dell’Occidente. Noi non siamo macchine da guerra. Non siamo al servizio di cause generalissime. Scegliamo. Ciascuno gioca se stesso con quella briciola di libertà che gli consente di agitare il mignolo in segno di no o di sì sotterrati dalle verità ideologiche.
Mi immedesimo – ci provo – con quelle persone. Il momento della morte dei loro amici è coinciso con quello della gloria. Milioni in piazza. Nel grido siamo-tutti-Charlie – non lo riscrivo in francese perché quel cartello mi esce dagli occhi, e così a voi, credo – in quelle prime ore non c’è stata identificazione ideologica con lo sberleffo e la blasfemia, ma il chinarsi sui corpi insanguinati, abbracciandoli. Vorrei essere voi, stare al vostro posto, siete fratelli. Per questo è stato bello vedere e sentire quello slogan.
Il primo numero della rivista dopo l’atroce delitto è stato l’evento mediatico più straordinario da molti anni a questa parte, perché era cartaceo, di carta brutta, giallastra: sei milioni di copie. La loro vignetta di copertina, dove in testa a Maometto in lacrime pioveva dall’esterno, forse dal cielo, una sentenza: “Tutto è perdonato”, è stata forse un rigurgito amaro e dolce di cristianesimo. Non c’era offesa. Ma tra i notabili islamici si è levato lo stesso un urlo di indignazione, che ha coinvolto le masse: si raffigurava Maometto e questo non si deve. A morte!
Mi aveva colpito, e mi piaceva, confesso, la ribellione all’arruolamento forzoso, di dover per forza tutta la vita fare sberleffi per essere coerenti con la causa libertaria e nichilista. Ho pensato: questa redazione aveva tutto: notorietà, nobiltà, denaro a catinelle riversato dal governo francese. Si sono fermati. Per il diritto di avere paura, di ripensarci. Magari anche di rifiutare che la loro vita e il loro lavoro coincidesse con la bestemmia e lo sberleffo atroce. Anche fermarsi sarebbe stata una vittoria. Perché fermarsi? Perché da noi si può.
Ora cercano una nuova sede. Faccio un’offerta per conto del direttore Amicone. Sono sicuro che se la compagnia parigina fosse ospitata nella redazione di Tempi resisterebbe, produrrebbe ancora vignette angosciate e clementi, frementi e a volta allegre, avrebbe trovato modo di essere feconda, di prorompere in una ilarità nuova. Non più appoggiata sul gas esilarante e acido del nichilismo, ma su una sostanza di bene certo, su un’umanità carnale, peccatrice ma consapevole di un’amicizia che neppure i fucili d’assalto e le decapitazioni possono disperdere nel vuoto.
Mi ha scritto un’amica deputata turca, intellettuale finissima. È musulmana. Un incontro al Consiglio d’Europa ha suscitato in lei il desiderio di approfondire cosa sia il cattolicesimo. Il suo modo di capirlo è stato rivisitare l’islam della sua tradizione. Mi ha spedito le sue condoglianze e il suo dolore per la morte di quei signori francesi. E mi ha mandato una immagine, che qui riproduciamo (foto sopra a sinistra), frutto dell’arte di un pittore della sua famiglia (Taha Alkan), in memoria dei fatti di Parigi. Maometto e Gesù piangono insieme. Non c’entra il sincretismo; in quell’immagine c’è un desiderio bellissimo di distruggere non l’altro, ma la nostra estraneità l’uno dall’altro.