Giakarta – È un San Francesco benedicente che impone la sua presenza nel cortile dell’università cattolica Atma Jaya di Giakarta. Le braccia larghe e lo sguardo al cielo, la grande statua di bronzo evoca lontane immagini di pace e serenità in contrasto stridente con la realtà che lo circonda. Sotto di lui decine di ragazzi si contendono bossoli di proiettili, munizioni vere e non di gomma sparate dai militari durante le recenti incursioni all’interno dell’ateneo. Trovatili, alcuni ragazzi li hanno montati a collana e li esibiscono al collo come trofei di guerra.
I ragazzi della Cattolica di Giakarta Ed è veramente una guerra quella che in questi giorni contrappone fisicamente gli studenti indonesiani a militari, polizia e forze speciali: una guerra impari da un punto di vista strettamente militare ma non per questo da considerare persa. Dalla loro i militari hanno infatti la forza della violenza, i ragazzi quella degli ideali.
Vogliono giustizia e democrazia, e per ottenerle hanno iniziato una lotta che identificano in una siglia: K.K.N., dalla lingua Bahasa, Kolusi, Korupsi e Nepotisme. Collusione, corruzione e nepotismo sono cioè le forze del male contro cui lottare: in altre parole il governo del presidente Habibie di cui ora chiedono le dimissioni. Assurto al potere nel maggio del 1998 sebbene non votato, è stato imposto al Paese dal generale Suharto, lo stesso dittatore che ha vessato il Paese per trent’anni e che la loro lotta ha costretto alle dimissioni un anno fa. Gli studenti chiedono anche le dimissioni del generale Wiranto, che impersonifica lo strapotere dei militari e la loro doppia funzione nel Paese.
“Da voi i militari stanno nelle caserme mentre da noi hanno dei seggi riservati persino in Parlamento”, protesta Alex, uno studente della facoltà di Economia che sintetizza ulteriormente il problema: “La K-ollusione dei militari con i politici K-orrotti ed il loro N-epotismo stanno portando l’Indonesia alla rovina”.
KKN dunque. E gli studenti dell’università cattolica Atma Jaya sono scesi nuovamente in piazza. “Le Forze armate che hanno massacrato i timoresi sono le stesse che sparano contro di noi ad altezza d’uomo”, commenta Owo, uno studente in legge che è uno dei leader della rivolta. Ricordando poi il compagno ucciso con un colpo al cuore davanti all’università, confessa di aver paura ma… “Ogni volta che scendo in piazza, prima di affrontare i militari chiedo sempre a Lui di venir con me”, ed indica la grande statua in bronzo di San Francesco in bronzo.
Dividi et impera Esattamente come un anno fa gli studenti cristiani si sono nuovamente gettati a capofitto nella lotta a fianco dei loro compagni musulmani, per i quali la differenza di religione non è mai stata un problema. La loro unità è però oggi insidiata da alcuni gruppi di fondamentalisti islamici che, manovrati pare da governo e militari, tentano di dividere gli studenti in base alla loro religione. Al riguardo M. Mahfud, esperto legale dell’università islamica di Yoygakarta, parla apertamente di “manipolazioni di Stato”. È la vecchia logica del “Dividi e Impera”.
Fra i gruppi che sembrano ben disposti a sostenere la “ragion di stato” c’è il “Juba Puti” (veste bianca, dal nome della veste stile arabo bianca che vestono), un gruppo radicale vicino ai militari che recentemente ha minacciato i responsabili dell’università cattolica Atma Jaya. “Vi attaccheremo”, hanno ripetutamente telefonato in segreteria. Sono persino intervenuti durante gli scontri di piazza “per difendere i militari”, come da loro stessi dichiarato.
Parallelamente il Governo accusa i cattolici di essere i responsabili dei disordini di questi giorni, come confermato da Felix Lengkong, il portavoce dell’ateneo che si discolpa: “Noi abbiamo solo offerto rifugio ai ragazzi durante gli scontri perché siamo l’università più vicina al Parlamento. Cosa dovevamo fare? Lasciarli in balia dei proiettili dei militari?”.
Sei milioni di cattolici indonesiani in pericolo?
A Giakarta gruppi fondamentalisti vicino ai militari e governo stanno dunque cercando di mettere i cattolici contro i musulmani. Il tentativo è evidente anche a Timor, dove Joao da Silva, uno dei leader dei miliziani, ha apertamente accusato la Chiesa cattolica di essere responsabile della guerra civile fra pro-indipendentisti e pro-integrazionisti.
Un ulteriore esempio è la sottoscrizione alla Jihad contro i cristiani aperta due settimane fa da alcune sezioni giovanili javanesi del Nathalatul Ulama (NU), un’organizzazione musulmana. Nel caso specifico il pretesto addotto a giustificazione di un atto così estremo è stato l’intervento della Forze multinazionale a Timor Est, vissuto in tutto il Paese come una violazione alla popria sovranità territoriale: un’umiliazione che ha generato una ventata di nazionalismo che, non fosse che per contrapposizione con la cristiana Australia (anche gli est timoresi sono cristiani), tende in alcuni ad identificarsi con l’Islam.
Ma le violenze di Timor sono la conseguenza del referendum indetto dal presidente Habibie senza nemmeno consultare il parlamento: un referendum giudicato da tutti inopportuno, e paradossalmente persino dai cristiani in Indonesia, che temevano possibili ritorsioni: un “effetto collaterale” che si è verificato puntualmente addirittura sotto forma di Jihad. L’idea, peraltro apertamente espressa dalla portavoce del presidente, Dewi Fortuna Anwar, era questa: “Liberiamoci di Timor Est, un’isola ingovernabile a maggioranza cristiana che ci costa solo denaro”.
Quanto sia stato tutto macchinosamente orchestrato, come alcune teorie suggeriscono, intorno al referendum del 30 agosto scorso finito in tragedia, o quanto se ne siano state invece solo strumentalizzate le conseguenze non è chiaro. Ciò che però è evidente è la collusione strategica e momentanea di interessi fra militari e integralisti alla ricerca di potere in un Paese prevalentemente laico e religiosamente moderato.