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Nel mondo globale. Con gratuità

Storie di ordinaria cooperazione internazionale. Non il mito molto perbene del “beau geste” né l’amore al povero virtuale celebrato dalle prediche dell’utopia umanitaria. Ma un incontro tra uomini. Perché solo la condivisione è rispettabile. Non prevista da nessuna legge, se non quella inscitta nei cuori a cura di Fulvia Riccardi

Riccardi Fulvia
02/08/2001 - 0:00
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Brasile

L’America-Latina è una terra dov’è doloroso e accecante il divario fra zone ricche e povere, e insieme dove si può cogliere la dolente ma sorprendente umanità delle favelas, baracche abitate da migliaia di persone costrette a vivere in condizioni disumane, sia dal punto di vista igienico-sanitario che culturale ed economico. Durante il periodo della dittatura militare, la cartografia ufficiale indicava le zone occupate da queste baraccopoli come “zone verdi”, adibite a parchi pubblici, un artificio per nascondere una realtà ben diversa e drammaticamente visibile.

L’Avsi si occupa dei favelados (abitanti delle favelas) del Brasile dal 1981, anno del primo progetto avviato a Belo Horizonte, dove ancora oggi lavora Padre Pigi Bernareggi, parroco della favela “I de Maio”.

Uno dei maggiori problemi per chi vive nelle megalopoli latino-americane è, da sempre, quello di riuscire a migliorare le proprie condizioni di vita e vivere in una casa dignitosa, con i servizi adeguati. Nel 1983-1984, l’Avsi è riuscita ad ottenere dalla Comunità Europea i finanziamenti per un progetto pilota di risanamento ambientale a favore di cinque favelas. Da allora è iniziato un iter lento ma incessante d’urbanizzazione, favorito anche da associazioni di favelados che hanno imparato a lottare insieme per il diritto alla casa. La prima legge pro-favela è stata promulgata dal consiglio comunale di Belo Horizonte, e ha riconosciuto il diritto degli abitanti alla proprietà del terreno e della baracca in cui abitano. Possedere una casa propria e insieme riuscire a percepire delle radici, aiuta i favelandos a sentirsi sempre più coinvolti, facendo crescere il loro desiderio di diventare protagonisti del proprio sviluppo: curarsi delle proprietà, pagare i servizi per l’urbanizzazione (acqua, luce e gas), chiedere al comune i servizi sociali (scuole, ambulatori, ecc.). Il progetto ha coinvolto anche un gran numero d’istituzioni pubbliche e private, e si è curato della formazione del personale locale. Le favelas sono state così finalmente riconosciute come realtà esistenti, come mondi vitali e, benché densi di problemi di varia natura, ricchi di cultura, solidarietà e tradizioni. Ma è dal 1990 che il governo del Brasile ha cominciato a considerarle una fonte di risorse da valorizzare. Nel 1998 è stato inaugurato un progetto per coordinare undici asili, nati nel corso degli anni in tutte le favelas delle principali città brasiliane, frequentati da oltre 2mila bambini e seguiti da 113 educatori specializzati. A San Paolo si è costituito il primo Centro di Recupero ed Educazione Nutrizionale (CREN), collegato all’Università Federale, un progetto cui partecipa il Ministero degli Affari esteri italiano. In soli tre anni, più di 2mila bambini sono stati curati e nutriti coinvolgendo le rispettive famiglie. Dal 1993 hanno inoltre preso avvio le adozioni a distanza (oltre 2mila le adesioni, fino ad oggi). Nel 1996 sono state inaugurate le prime abitazioni in muratura per le favelas di Novos Alagados e Salvator Bahia, fino ad allora costruite su palafitte. Avsi ha infine stipulato un accordo con la Banca Mondiale per il finanziamento e la realizzazione del progetto “Intervento tecnico e sociale”, nel quadro della programmata “riduzione della Povertà Urbana nell’area Riberia Azul” della città di Salvator Bahia, siglato alla presenza di Franco Passacantando, direttore esecutivo italiano presso la Banca.

Kenya

Il Kenya è un paese che ha visto la sua popolazione triplicarsi in soli 9 anni. Oggi raggiunge i 3 milioni di abitanti. La capitale Nairobi, come tante metropoli nei paesi in via di sviluppo, ha dovuto sostenere una crescita abnorme, con un’inevitabile diffusione della povertà, che attualmente tocca il 3O% dei suoi cittadini. Negli ultimi 20-30 anni il Kenya ha conosciuto anche un certo sviluppo economico e industriale, favorito in gran parte dagli investimenti esteri, tuttavia non ancora sufficienti ad assorbire la crescente domanda d’occupazione. Con il miraggio di un posto di lavoro, molti kenioti si trasferiscono dalle zone rurali alle periferie della capitale, creando insediamenti di slums, baraccopoli dove le condizioni igienico-sanitarie sono pessime e il sovraffollamento la norma, come pure l’elevato tasso di mortalità per malattie e denutrizione. Qui l’assenza di lavoro determina l’aumento di fenomeni di criminalità.

Per questo è nato il “St. Kizito Vocational Training Institute”, un istituto di formazione professionale con insegnanti altamente qualificati e tasse scolastiche contenute, che ai giovani sotto i 20 anni – il 50% della popolazione – offre la possibilità di una preparazione adeguata per un più agevole inserimento nel mondo del lavoro. L’istituto è situato in una zona povera e densamente popolata alla periferia sud-est di Nairobi, accessibile a tutti quei giovani provenienti dagli slums e dalle aree circostanti.

Attualmente sono operativi corsi di formazione per segretarie, meccanici ed elettrauto, corsi di falegnameria, di sartoria e lezioni d’informatica. 700 giovani d’età compresa tra i 14 ed i 25 anni hanno già ricevuto una valida formazione umana e tecnica, e l’80% degli iscritti riesce a portare a termine gli studi. Nel 1998, 30 studenti che non potevano pagare le tasse scolastiche sono stati ammessi gratuitamente, come pure 35 giovani sudanesi, in fuga da un paese devastato dalla guerra. Lo stesso anno più di 1/3 dei 70 ragazzi messi in contatto con le aziende, è riuscito a trovare lavoro. Oggi il Kizito Institute è ufficialmente riconosciuto dal Ministero dell’Educazione Tecnica del Kenya come “Youth Polythecnic” (scuola con corsi diversificati per il conseguimento di un certificato di formazione, alla portata dei meno abbienti per livelli di difficoltà e costi).

Kosovo

Dalla fine della guerra, Avsi ha stabilito a Pristina la sede operativa per alcuni importanti progetti d’aiuto alimentare, psico-sociale, educativo e di ricostruzione. Ne è responsabile Matteo Matteini che presenterà questi interventi al Meeting di Rimini, insieme a quattro ragazzi kosovari. Matteini è in Kosovo da 5 mesi, dopo il rientro dalla regione di tutti quei volontari che hanno lavorato alla fase dell’emergenza. Oggi non serve tanto una ricostruzione materiale, quanto psicologica: i kosovari hanno bisogno di ricostruirsi un’identità culturale. Per questo il tentativo è quello di porre la persona al centro del progetto d’aiuto, coinvolgerla e responsabilizzarla, in particolare attraverso interventi nel campo dell’infanzia, in quello educativo e sociale.

«Perchè ho scelto di venire a Pristina? – spiega Matteini – perché mi sembra una scelta utile per la mia crescita personale. Oggi abbiamo avviato l’adozione a distanza e i corsi di formazione professionale in campo agrario. Partecipiamo al LoGo dell’Undp (Programma Onu per lo sviluppo), un progetto di local governament che si propone di insegnare la gestione amministrativa offrendo assistenza tecnica agli amministratori locali appena eletti. Sono previsti stage formativi, con la partecipazione d’esperti provenienti dalle amministrazioni locali europee, dove si apprendono gli strumenti e i metodi utili allo sviluppo dell’economia e del mondo del lavoro. Oggi in Kosovo non c’è più il rischio di un conflitto aperto, ma rimangono gli scontri fra cosche e mafie locali. Insieme ai traffici illeciti di persone, armi e droga. Un progetto in fase d’avvio è rivolto al recupero dei beni architettonici tradizionali e al sostegno delle tradizioni artistiche locali, con la promozione di produzioni teatrali o musicali. Esiste inoltre un progetto di sostegno alla Chiesa cattolica locale per formare operatori parrocchiali. In particolare è nato un rapporto di profonda amicizia con don Lush Gerji, biografo ufficiale di Madre Teresa di Calcutta: nella sua parrocchia di Binc, a sud del Kosovo, vicino alla Macedonia, è nato un progetto d’adozione a distanza insieme all’Associazione Madre Teresa. Ma si collabora anche con le realtà dei non cattolici, che rappresentano la maggioranza della popolazione (i cattolici in Kosovo sono il 5% degli abitanti)».

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Uganda

Un paese straziato da guerre, dall’Aids e ultimamente anche dalle epidemie del virus Ebola. È l’Uganda, dove Avsi è presente dal 1984, con 34 progetti d’aiuto. Dalla sanità all’agricoltura, dalla formazione all’assistenza ai rifugiati, tante sono le aree d’intervento. E altrettanto numerosi gli enti che hanno contribuito a finanziare la cooperazione, dall’Ue all’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu, dalla Conferenza Episcopale italiana al World Food Program, fino alla Regione Liguria e alla Repubblica di San Marino.

Nel settore della sanità, nel distretto di Kitgum gli interventi di cooperazione permettono il funzionamento di due ospedali e dei Centri sanitari periferici, ristrutturati e forniti di personale medico e paramedico, che assistono 400mila persone.

L’assistenza ai malati di Aids è possibile grazie all’Associazione Meeting Point: nata nel 1990 con la partecipazione attiva della popolazione locale, oggi è riconosciuta come Ong dallo stesso governo e cura i malati fin nelle loro case. Proprio per sostenere i numerosi orfani dell’Aids, è cominciata in Uganda quell’adozione a distanza che oggi coinvolge minori in diverse condizioni di povertà.

Eroico l’esempio di dedizione del St. Mary’s Lacor Hospital di Gulu, fondato dai coniugi Lucille e Piero Corti: qui ha trovato la morte il dottor Matthew Lukwiya per non aver voluto abbandonare i suoi malati di Ebola. Una commovente testimonianza di santità ricordata dalle parole di Gaetano Azzimonti, medico rianimatore di Avsi ad Hoima, che ha rischiato a sua volta di contrarre il devastante virus nell’ultimo disperato tentativo di salvare il dottor Matthew dall’infezione: «Ci sono momenti dentro la vita in cui uno capisce un po’ di più cosa significa appartenere a un Altro: quando tutte le tue immagini, progetti, pretese si dissolvono e sei nudo davanti alla misericordia del Signore».

A Gulu è attivo anche un progetto di recupero e rieducazione delle vittime delle mine antiuomo che si avvale delle moderne tecnologie per gli arti artificiali e fornisce assistenza psicologica, come racconta Andrea Costanzi, oggi medico ad Hoima: «Ho vissuto da vicino il caso di Margareth Arach. Era segretaria Avsi a Kitgum, e si occupava del programma di recupero psico-sociale dei bambini soldato. Mentre tornava a casa per le vacanze è saltata su una mina. È stata curata dal nostro programma di assistenza: non solo gli sono state fornite le protesi di cui aveva bisogno, ma gli siamo stati anche vicini. La sua reazione a questo drammatico evento è stata molto positiva e ha voluto raccontare la sua serenità nel vivere questo dramma».

Presso Achol Pii si svolge l’assistenza ai rifugiati sudanesi e congolesi radunati nei campi profughi (cui vengono offerti aiuti alimentari, educativi e sanitari) e si è costituito l’Acholi District Farm Institute per il miglioramento delle coltivazioni, sede di vivai e centro di preziosi corsi residenziali per agricoltori che qui apprendono l’utilizzo di tutte le tecnologie appropriate. Da segnalare infine, nei distretti di Mpigi e Kampala, l’attivazione di 180 sorgenti e 60 pozzi d’acqua potabile, e l’avvio di un progetto completo di approvvigionamento idrico per 10mila abitanti.

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