Dietro l’obiettivo di Hatleberg, tra spari al vento e boa nella vasca
«Ricordo una vecchia che generosamente condivise la sua casa con me per qualche notte. “È pericoloso là fuori”, mi avvertì, indicando vagamente la città. “È meglio che tu resti qui per un po’”. Era una cuoca incredibile e mi dava da mangiare come se fossi suo figlio. Sembrava che stesse sempre cucinando un banchetto per un ospite che non arrivava mai. Una sera mangiammo spaghetti su piatti di carta davanti alla TV. Quando un forte vento irruppe nella stanza, sparò con una pistola fuori dalla porta nella notte. Non sapevo nemmeno che avesse una pistola. Non lo disse mai. Uno dei colpi mancò la porta aperta e lasciò un buco frastagliato nel pannello di legno. La pioggia entrò a dirotto. Un cane da qualche parte cominciò a ululare. Con la pistola ancora alzata, si dondolò delicatamente fuori dalla sua poltrona reclinabile come se nulla fosse successo e chiuse la porta aperta per proteggerla dalla tempesta. Questa volta si assicurò che il chiavistello fosse ben tirato. Girandosi verso di me, sorridendo, insistette calorosamente perché prendessi una seconda porzione di spaghetti e portò il mio piatto in cucina, porgendomi il telecomando».
River’s Dream di Curran Hatleberg al Meeting di Rimini
Quello che avete appena letto non è l’inizio di un racconto di Flannery O’Connor, ma un incontro successo al fotografo americano Curran Hatleberg. Lo ha raccontato lui stesso al Meeting di Rimini, dove in questi giorni espone per la prima volta in assoluto tutti e 65 gli scatti di River’s Dream, libro fotografico uscito nel 2022 frutto dei suoi viaggi nel sud-est degli Stati Uniti dal 2010 al 2020 (il curatore della mostra, Luca Fiore, ne ha scritto qui, e chi è al Meeting ha tempo ancora oggi per visitarla). Un viaggio non cronologico che si srotola sulle pareti del grande stand nel padiglione C5, sessantacinque fotografie legate tra loro come tessere di un domino – ognuna ha un particolare che rimanda in modo più o meno esplicito a quella successiva – sessantacinque istanti fermati per sempre in cui «il quotidiano flirta con il sublime» e in cui «dentro l’inquadratura, a volte, appare qualcosa che apre a una possibilità».
River’s Dream non è una mostra documentaristica, le foto di Hatleberg non vogliono denunciare qualcosa, nascono da un decennio di peregrinazioni soprattutto estive tra Florida, Texas, Louisiana e Mississippi. La sua idea è quella di incontrare le persone, usare la macchina fotografica come passaporto per entrare in relazione con loro, fosse per cinque minuti o per tutta la vita. «Volevo scoprire il significato di comunità, famiglia, ed esperienza umana», dice, e la fotografia «è lo strumento per arrivarci».
La fotografia di Hatleberg e quell’auto prestata
Parlando al Meeting Hatleberg ha raccontato l’origine del suo processo fotografico con un altro esempio che sembra uscire dalle pagine di qualche scrittore del sud degli Stati Uniti: mentre si trova con degli sconosciuti in un bar improvvisato nel soggiorno di qualcuno lungo una strada sconosciuta, un uomo gli chiede di poter fare un giro con il suo furgone.
«Senza pensarci dico ok. Tutti nel bar barcollano nel parcheggio polveroso per dare un’occhiata al furgone. Non mi sembra un granché, ma tutti sembrano interessati. Gli lancio le chiavi, poi lo guardiamo allontanarsi. Restiamo lì a ondeggiare, a guardare le luci posteriori rosse del rimorchio finché non scompaiono dalla vista nell’oscurità. Mi sono reso conto che non avevo nemmeno chiesto il nome del tizio. Tutti erano fermi, silenziosi, ora, a guardare il punto all’orizzonte dove l’auto era stata visibile l’ultima volta, anche se non c’era più niente da vedere. Torniamo tutti dentro e ordiniamo bevande fresche. Aspetto. Due ore, tre ore. Passano quattro ore. La gente ride. Non so se ride con me o di me. Mi sveglio la mattina dopo sul sedile del passeggero del furgone. Un sole opprimente picchia forte. La porta del bar è chiusa a chiave. In uno stato confusionale rovisto nel furgone; non manca niente. Niente è fuori posto. Il serbatoio è pieno. Non aveva toccato nulla».
«Quando lavoro dico “sì” a tutto»
Succede lo stesso per le fotografie, dice: «È così che inizio sempre. Affido la mia intera vita a qualcun altro, lasciando che prenda il volante. Quando lavoro dico “sì” a tutto per vedere cosa succede. Quando fotografo accetto quasi ogni singola cosa. Il mio lavoro dipende da questo». Hatleberg ha 42 anni, e su Instagram si chiama @_suttree_. Suttree è il protagonista dell’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. In un’intervista concessa a un sito americano di fotografia, ha detto che «quando ho letto Suttree di Cormac McCarthy, mi ci sono ritrovato. Il libro conteneva un aspetto di fuga che mi è sembrato familiare. Per tutto il romanzo, anche se non lo sa, Suttree è sempre alla ricerca di una casa, alla ricerca di momenti e scambi che trasmettano l’appartenenza significativa e la stabilità di casa».
Alligatori tra i fiori e boa nella vasca
River’s Dream è dedicato agli Huggers, una famiglia della Florida con cui lui ha legato particolarmente, e che sono presenti nelle immagini (ma non sappiamo chi sono). Huggers è il loro cognome, ma in inglese vuol dire anche “quelli che abbracciano”. «Tante volte nella mia vita mi sono perso o sono andato alla deriva, alla ricerca di un legame e di amore, come capita a tutti, e non è esagerato dire che le persone con cui trascorro del tempo e che fotografo sono e sono state la mia famiglia. Ho vissuto con molti dei miei soggetti e collaboratori. Ho mangiato con loro. Ho lavorato con loro. Ho svolto compiti e faccende con loro. In compagnia di persone, la vita è affermativa e migliore. In definitiva, credo che le fotografie siano tracce di questo, di qualcosa di più profondo e importante di quanto potrei mai costruire da solo».
In ognuna delle sessantacinque foto di River’s Dream ci sono opposti che convivono, c’è la natura che sembra voler occupare gli spazi abitati dagli uomini, ci sono animali feroci e bambine sorridenti, case distrutte dagli uragani e tramonti strazianti, c’è un alligatore mimetizzato in un parto fiorito, un gruppo di persone che gioca a domino, un boa dentro a una vasca da bagno, serpenti, un uomo coperto di api, un insetto bellissimo appoggiatosi per caso sul braccio di una donna che lo guarda sorridente in mezzo a molte bottiglie di birra vuote.
Quei cento limoni impossibili da fotografare
Dietro a queste foto ci sono dieci anni di storie incredibili: la donna che spara al vento dalla porta di casa, ma anche un uomo che ruba un centinaio di limoni e che Hatleberg non riuscirà mai a fotografare. «La fotografia comporta molti fallimenti. Il fallimento è lo standard del mezzo. È il risultato continuo e ripetitivo finché qualcosa non funziona miracolosamente. Anche una grande fotografia è sempre solo una debole approssimazione della vivida complessità e del mistero della vita. Ma è esattamente questo che mi attrae di più e che informa il mio lavoro».
Dieci anni di vita, incontri, abbracci, e appena sessantacinque fotografie. La maggior parte del tempo Hatleberg lo ha passato senza macchina fotografica, semplicemente vivendo con le persone che lo accoglievano: «Quando sono lì in quel momento, mi illudo di avere tempo e opportunità illimitati, ma il tempo scade e poi è il momento di partire per un percorso separato, e sono di nuovo solo, lasciato con ricordi e conversazioni echeggianti».
Il tempo trascorso con loro, dice, «è un privilegio sacro e finisce in fretta. Troppo in fretta. Poi tutto ciò che mi rimane è la consapevolezza che potrei non sedermi mai più al tavolo di quella persona. Potrei non rivedere mai più quella casa in particolare, o quello specifico specchio d’acqua, o quel volto o quella famiglia, e se per caso lo facessi, si tratterebbe solo di pochi istanti nell’arco di una vita intera, e la volta successiva sarà totalmente diversa, perché loro sono cambiati e io sono cambiato».
Volti che si radunano
«Quando chiudo gli occhi vedo le persone fluire insieme in modo naturale. Vedo volti che si radunano. Una sfilata infinita di volti che vanno e vengono, che ridono, che si toccano, che si scontrano l’uno con l’altro. Volti impegnati in una violenza sconsiderata e in un abbraccio sciatto. Volti desiderosi di amore. Volti tutti eccitati di condividere qualcosa della loro vita con qualcun altro. Volti disperati di farsi capire, di scoprire cosa vogliono dire. Tutti irresistibili. Tutti perfetti». Poche settimane dopo aver finito di comporre la serie di fotografie di River’s Dream, Hutleberg è diventato padre per la prima volta. Suo figlio si chiama River.
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