
Monte dei fiaschi
Siamo certi che la posizione personale del governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, in relazione al caso 121 (che lo vede indagato per favoreggiamento dalla Procura di Trani) si chiarirà al più presto. D’altronde come non pensarlo, visto che sono gli stessi inquirenti pugliesi – in un sussulto di garantismo senza precedenti – a confermarlo, ribadendo inoltre che nei confronti dell’inquilino di Palazzo Koch non è stato ravvisato nulla di rilevante: un atto dovuto, niente più. Siamo felici, per lui e per tutti coloro che nell’apprendere la notizia dell’avviso di garanzia già vedevano davanti agli occhi macerie fumanti di un paese allo sbando. Ma non è del governatore che vogliamo parlare (l’abbiamo già fatto – e abbondantemente – nelle scorse settimane) bensì del caso per cui quest’ultimo è stato penalmente chiamato in causa: Banca 121. Non una sigla nuova, a dire il vero: la scorsa primavera, infatti, in relazione allo scandalo dei titoli ad alto rischio travestiti da investimenti si era dimesso nientemeno che il direttore generale del Monte dei Paschi di Siena (Mps), Vincenzo De Bustis. Già, perché pur dovendo attenerci alle routinarie motivazioni ufficialmente addotte dall’interessato per giustificare il proprio addio, a nessuno era sfuggita la strana concomitanza temporale con la richiesta da parte di due associazioni di consumatori di risarcimento per i clienti che avevano sottoscritto proprio prodotti-bidone quali “4you” e “My Way” offerti dalla controllata dell’Mps, Banca 121 appunto (già Banca del Salento). Di più, già all’epoca l’ex presidente di Banca 121, Giovanni Semeraro, risultava indagato per truffa nell’ambito delle indagini della Procura di Lecce proprio sul servizio bancario “My way”. Una storia, quest’ultima, di banche e di inchieste che affonda le sue radici nel tempo e che incrocia destini politici illustri: il Monte dei Paschi di Siena è, infatti, la “cassaforte” dei Ds. O almeno lo è stata. O almeno lo è stata per una parte del partito. Tant’è, la dietrologia al riguardo si spreca. Noi, invece, vi raccontiamo una storia differente. Quella di un istituto di credito, la Banca del Salento, acquistata nel 1999 da Monte dei Paschi di Siena per 1.250 milioni di euro (circa 2.500 miliardi di vecchie lire, fonte La Repubblica del 10 settembre 2002 nella cronaca di Bari) e divenuta, in un eccesso di esaltazione da new economy, Banca 121. Una bella cifra, non c’è che dire: che contrasta però con quanto affermato dalla banca-dati telematica Investire.net, secondo la quale l’acquisizione sarebbe costata 1.600 miliardi di lire così ripartiti: seicento cash e mille con azioni Mps mediante un aumento di capitale riservato. Quanto è costata, in realtà, l’operazione? La differenza, capite, è di quasi mille miliardi di lire: non bazzecole. Ma proseguiamo nel nostro ipotetico scenario.
Siamo agli inizi del 2000 e il Monte dei Paschi di Siena, fresco di acquisto della leccese Banca del Salento, diviene partner dell’Euro Media Venture Fund, un fondo con una dotazione iniziale di 100 milioni di dollari da investire dal febbraio seguente nel campo delle nuove aziende legate a Internet e alla Silicon Valley. Un’avventura che vede Monte dei Paschi muoversi in maniera determinata sul mercato statunitense (da Lecce e dintorni a Washington e dintorni, un bel salto molto in voga all’epoca) dopo essere divenuto anche azionista della Bell, finanziaria con sede in Lussemburgo che controlla il gruppo Olivetti-Telecom. Mps rileva il 10,09%, i fratelli Lonati il 2,15%. Il Montepaschi, anche tramite la controllata Bam (Banca Agricola Mantovana) di cui Ettore Lonati e Roberto Colaninno sono consiglieri, nella primavera del 1999 ha appoggiato la scalata a Telecom. All’epoca l’Unipol, assicurazione della Lega-Coop, era entrata da oltre un anno nelle società lussemburghesi di Colaninno e Gnutti, e quest’ultimo aveva comprato circa il 10% dell’Unipol stessa. Gran bella storia questa dell’Unipol, vale la pena di raccontarla. La Finsoe, finanziaria di circa 60 aziende del mondo cooperativo della Lega delle Coop, controllata dai Ds e dalla Cgil, ha infatti venduto per 120 miliardi l’8,8% del pacchetto azionario dell’Unipol a Emilio Gnutti, finanziere d’assalto e nuovo padrone di Telecom. A comprare in blocco l’8,8% della compagnia assicurativa bolognese fu l’asse imprenditoriale che ha sostenuto la scalata di Colaninno in Telecom. In particolare gli acquirenti sarebbero, con quote tutte inferiori al 2%, la Gp Finanziaria (Gnutti), la Hopa, la Fingruppo (tutte e tre hanno sede in Lussemburgo, ove Gnutti portava «borse piene di miliardi», stando al Sole 24 ore del 27-2-99) e altre due società, sempre riconducibili all’imprenditore bresciano. A quest’asse si legherebbe anche il Monte dei Paschi di Siena (diretto fino a 6 mesi prima da Luigi Spaventa, arbitro dell’Opa Telecom in quanto capo della Consob), che era presente in Unipol attraverso la Banca agricola mantovana (La Repubblica del 25-5-99), poi assorbita dall’Mps grazie all’ok determinante del mantovano Colaninno, presente nel consiglio di amministrazione della Bam. Un bell’intreccio, anche se alla fine i nomi che spuntano sono sempre gli stessi: tranne uno, mai presente alla luce del sole ma sempre presente in queste operazioni. Stessi luoghi: il Salento, Mantova e poi New York, dove ha sede quella Chase Manhattan Bank socia all’1,62% della società lussemburghese Bell di Gnutti e company. Disse Roberto Colaninno il 24 agosto del 1999 alla platea del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini: «In 10 minuti dalla Chase Manhattan Bank ebbi la lettera di garanzia per 25 miliardi di dollari (oltre 45mila miliardi di lire). Il vicepresidente John Lee mi disse sorridendo: “Roberto hai il tuo prestito. Se hai bisogno di qualcosa chiamami.” Questa è la dimostrazione che non è vero che i soldi non ci sono, che il mondo non mette i soldi in Italia. I soldi ci sono, basta avere idee e coraggio». E che coraggio, signori.
Ma veniamo a fatti un po’ più recenti, esattamente all’inizio di novembre del 2001. Alla presentazione del bimestrale della scintillante, ricca e superoperativa Fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema, le cronache hanno notato la presenza di Vittorio Cecchi Gori: purtroppo, però, non lo hanno pedinato. Avrebbero scoperto, ad un certo punto, che l’ex magnate del cinema è stato prelevato e condotto in una stanza di palazzo Borghese da Massimo D’Alema in persona e quindi introdotto alla presenza del direttore del Monte dei Paschi di Siena, proprio Vincenzo De Bustis. Le cronache più indiscrete dicono che il dalemiano di ferro De Bustis fosse stato investito (da Baffino?) di risolvere i problemi economici di Cecchi Gori, ad esempio scontare cambiali ipotecarie su beni immobili di palazzo Borghese per 70 miliardi. Detto, fatto. E bocciato. Davanti al no del consiglio di amministrazione del Montepaschi, De Bustis «che come direttore generale può deliberare fino a 20 miliardi» non se l’è sentita di firmare senza l’unanimità del consiglio. Sempre gli stessi personaggi, più qualche comparsa. E arriviamo ai giorni nostri: De Bustis se ne va perché intende esaurito il proprio mandato, la “banca del popolo” si trova nel mirino del popolo fregato dai contratti all’epoca sponsorizzati da Sharon Stone e l’ex presidente di Banca 121 (fu Banca del Salento, controllata Monte dei Paschi di Siena) si scopre indagato per truffa dalla procura della Repubblica di Lecce. Colpo di scena finale, il governatore di Bankitalia in persona finisce nel registro degli indagati della procura di Trani per favoreggiamento. Cosa c’entrano tutte queste cose insieme? Nulla, forse, l’avevamo anticipato: questo è uno scenario ipotetico, un collage di notizie che vedono rincorrersi sempre gli stessi nomi e le stesse sigle. Un puzzle cui manca un tassello: perché tra la valutazione e il costo effettivo per l’acquisizione della Banca del Salento da parte di Mps c’è una differenza di 1.000 miliardi di vecchie lire? E perché martedì 24 febbraio, l’ex ministro diessino Pierluigi Bersani, ospite del programma trelevisivo Ballarò, ha risposto in maniera quantomeno imbarazzata alla semplice domanda postagli dal conduttore Giovanni Floris su Banca 121 e su Antonio Fazio? Mah, forse garantismo estremo. O forse il fatto che, in qualità di docente presso la sede romana della Link University di Malta, proprio il buon Bersani ha avuto come studenti i figli del fantasioso banchiere “di famiglia” Vincenzo De Bustis?
Chi lo sa, la vita a volte è strana. Come da quando un giornalista manettaro ma tutto d’un pezzo ti ricorda che in molti, ai tempi dell’Ulivo, erano «entrati a Palazzo Chigi con le pezze al culo e sono usciti miliardari». O come quando un autorevole professore di nome Guido Rossi ricorda come la sede del governo, all’epoca dei trionfi diessini, fosse «l’unica merchant bank dove non si parla inglese». Ma noi siamo fiduciosi: tutto si chiarirà. In fretta.
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