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Meglio sconfitti che passati

Lorenzo Albacete
14/02/2008 - 0:00
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New York

Il supermartedì elettorale è passato, e nessuno realmente sa cosa significhi davvero il suo risultato o a che punto siamo nel processo di elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. L’unico fattore realmente inaspettato che è emerso è la trasformazione della campagna del senatore Barack Obama in un movimento o, come l’ho chiamato dopo il caucus dell’Iowa, la rivisitazione del sogno di Camelot. John F. Kennedy è tornato con abiti del 2008: un salvatore afroamericano, attraente, giovanile, colto, energico si è trasformato nel portatore di un’opportunità nuova di zecca per il sogno americano. Questo era davvero inaspettato.
Stanno emergendo sempre più nuovi elettori (soprattutto tra i giovani, le minoranze e gli idealisti che attendevano disperatamente un segnale da sinistra). Il loro numero è sufficientemente alto per rappresentare un problema per la senatrice Hillary Clinton, ma non ancora per poterla detronizzare. Il supermartedì ha rafforzato Obama, il suo movimento, ma non è stato in grado di ucciderla politicamente. Gli osservatori notano che il trend che emergeva dalle analisi post-elettorali era favorevole a Obama, almeno nella prima tornata dalle primarie, ma ora sembra probabile che il risultato finale non sarà deciso fino alla vera elezione. Una convention aperta del Partito democratico sarebbe uno spettacolo politico fantastico. Tutti i miei amici nel Partito, invece, mi dicono che sarebbe un di-sastro per l’elezione finale, visto che porterebbe il voto degli indipendenti (i quali continuano a essere la chiave dell’elezione) fra le braccia dei repubblicani qualora questi decidessero di unirsi attorno alla candidatura del senatore John McCain.
Ma cosa succederebbe se il risultato dell’ipotetica convention aperta fosse un ticket Clinton-Obama? Tutte le persone con cui ho parlato mi hanno detto che questa soluzione, ancorché plausibile, resta quasi impossibile. Se la situazione raggiungesse un vero impasse, sarebbe quindi più probabile che il Partito chiami qualcuno come Al Gore per ritrovare l’unità. Del resto che cosa ci guadagnerebbe Obama a correre come vicepresidente della Clinton? Una chance per correre come candidato presidente tra otto anni? Mentre se dirà di no al ticket e la Clinton perderà contro McCain, lui potrà candidarsi a governatore dell’Illinois nel 2010 e due anni dopo cercare di arrivare alla Casa Bianca.
Ma qual è il motivo dell’impasse? Nell’ultimo voto per il Congresso, due anni fa, i democratici si sono resi conto di quanto consenso il presidente Bush avesse perso per via della guerra in Iraq che non dava segni di miglioramento. La guerra, decisero, sarebbe stata l’argomento per riprendersi la Casa Bianca. Ma poi sono accadute due cose inaspettate: la nuova strategia militare in Iraq, alla quale molti democratici si sono opposti, ha cominciato a dare risultati positivi (il cosiddetto surge) e la situazione economica ha iniziato a risolversi. Con la guerra non più al centro dell’attenzione, i democratici hanno cominciato a elaborare alternative alle politiche economiche di Bush, ma non hanno trovato nulla di nuovo da proporre se non le ricette che il Partito aveva già presentato e che gli americani (generalmente conservatori in fatto di economia) avevano rifiutato. Detto questo, la popolarità di Bush era talmente bassa che gli avrebbero votato contro comunque.
La nuova parola d’ordine divenne allora “cambiamento” o “chiunque ma non Bush”. I leader del Partito democratico hanno progettato la campagna elettorale intorno a questo “cambiamento”. Ma Obama e i suoi consiglieri, nel corso della campagna, hanno capito che il cambiamento che il popolo americano desiderava non era soltanto un cambio del partito al potere, ma un “cambio di spirito” che si lasciasse dietro le spalle tutti gli argomenti che hanno paralizzato il paese negli ultimi 15 anni, specialmente i temi della guerra culturale, e affrontasse i problemi attuali in un modo non ideologico, rinvigorendo l’energia e il patriottismo che sorpresero tutti dopo l’11 settembre 2001. Quando ancora nessuno guardava in quella direzione, Obama si è fatto rappresentante di questo tipo di cambiamento, ottenendo i risultati che adesso sono sotto i nostri occhi. I democratici stanno cercando i modi di abbattere l’erede del passato (Hillary), i repubblicani stanno cercando di nominare qualcuno (McCain) che dimostri uno spirito indipendente rispetto al conservatorismo ideologico e alle questioni culturali, ma gli establishment di entrambi i partiti fanno resistenza.

Ora Barack conta sui latinos
Riuscirà Obama a segnare il punto decisivo prima della convention? Io penso che sia ancora possibile e il fattore chiave sarà il voto latino. In California e a New York il voto latino potrebbe non essere svincolato dai leader della comunità legati alla macchina elettorale di Hillary Clinton (sebbene gli indicatori dicano che Obama si stia muovendo verso quella direzione), ma in Texas, in Florida e negli stati del Sud-Ovest Obama ha una possibilità reale. Come ho già detto, quasi nessuno sembra pensare che un ticket Clinton-Obama sia possibile (dov’è Bill in tutto questo?), e che anche se fosse possibile potrebbe non conquistare abbastanza voti indipendenti per vincere l’elezione. I sostenitori di Obama vorrebbero che aspettasse il prossimo turno, dopo la sconfitta e l’uscita di scena dei Clinton.
Quanto a McCain, molto dipenderà da quanto lui si sposterà a destra per ottenere il consenso dei conservatori culturali ed economici, che attualmente non possono accettare il suo spirito indipendente. La maggior parte dei candidati si muove verso il centro nel corso di una campagna elettorale. McCain invece sarebbe costretto a spostarsi a destra, e questo sarà politicamente pericoloso se il tema del “cambiamento” continuerà a dominare le elezioni.

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