Meglio il vago no alla deforestazione della Cop26 dei miliardi di alberi del G20
L’impegno firmato in occasione della Cop26 da più di 100 leader mondiali di arrestare e invertire la deforestazione entro il 2030 arriva provvidenzialmente a correggere la stravagante e pericolosa dichiarazione finale del G20 di Roma, con la quale i capi di governo lì presenti facevano proprio l’obiettivo di piantare niente meno che 1.000 miliardi di alberi entro lo stesso anno 2030.
Bene il no alla deforestazione, ma…
Mentre l’impegno, ancorché generico, a preservare le foreste soprattutto tropicali va comunque nella giusta direzione della preservazione della biodiversità e della tendenziale stabilizzazione del clima, la rodomontata dei mille miliardi di alberi da piantare nel giro di 9 anni è una tipica contorsione greenwashing (che significa: ammantare di ecologismo politiche che all’ambiente non giovano affatto) prodotto dell’ignoranza di chi la compie, o della sua malafede che confida nell’ignoranza dell’opinione pubblica.
Piantare alberi indiscriminatamente, perseguendo obiettivi puramente quantitativi, fa più male che bene all’ambiente, e a volte anche molto più male. Gli esempi nel mondo sono già centinaia. Se si piantano miliardi di alberi alle alte latitudini di paesi come la Russia e il Canada, si alimenta il riscaldamento globale anziché contrastarlo, perché le aghifoglie e le chiome scure delle piante che crescono a quelle latitudini diminuiscono l’effetto albedo, cioè favoriscono l’assorbimento del calore solare anziché il suo respingimento da parte della steppa o della tundra.
Rischio bombe ecologiche
Se si piantano alberi là dove ci sono paludi e savane, si sconvolgono ecosistemi che si sono costituiti nel corso di milioni di anni, e così si perde biodiversità. Oppure si rischia di creare bombe ecologiche come quella che innescò il disastro di Fort McMurray, l’incendio che nel 1996 devastò l’omonima località e le foreste dell’Alberta (Canada) create bonificando scriteriatamente le paludi dell’Horse River: i muschi rinsecchiti e l’anidride carbonica assorbita dai pecci neri (pini) che erano stati piantati a milioni fecero da benzina a un incendio devastante, che provocò danni diretti e indiretti per quasi 10 miliardi di dollari.
Se si piantano gli alberi sbagliati nelle aree desertiche (come ha fatto molte volte la Cina) si svuotano le falde freatiche e si peggiora la siccità; se si piantano le piante sbagliate nelle grandi città, – il salice anziché il frassino, la quercia rovere anziché la betulla, il pioppo anziché l’acero – non si migliora la qualità dell’aria urbana, ma la si peggiora, perché le emissioni naturali di certi alberi si mescolano alle emissioni delle auto e del riscaldamento domestico e producono composti aerei più velenosi di quelli che si respiravano prima che fossero introdotte le piante.
Un colpo alla biodiversità
Il progetto di piantare mille miliardi di alberi nel giro di nove anni lascia facilmente immaginare che si tratterà di grandi estensioni di monocolture sfruttabili commercialmente, ma che impoveriranno inevitabilmente la biodiversità, favoriranno l’esodo dei piccoli contadini che hanno creato nei secoli ecosistemi particolari ricchi di diversità, occuperanno aree che andrebbero lasciate alla steppa, alla savana, alla palude. Un danno e non un vantaggio sotto tutti gli aspetti.
I programmi di conservazione e di riforestazione, per essere davvero virtuosi, dovrebbero rispettare le dieci regole messe a punto dagli esperti del Royal Botanic Gardens di Kew, nel sud-ovest di Londra. Che sono le seguenti.
1) Anzitutto proteggere le foreste che già esistono. Mantenere le foreste nella loro condizione originaria è sempre la soluzione preferibile: le antiche foreste intatte o quasi assorbono l’anidride carbonica in modo più efficiente e sono più resistenti agli incendi, alle tempeste e alle siccità.
2) Mettere al centro dei progetti di forestazione la gente che abita la regione. Quasi sempre i residenti sono le persone che hanno più da guadagnare dalla ricostituzione di foreste, ovvero dall’indotto economico sia transitorio che duraturo di cui esse sono il volano.
3) Massimizzare il recupero di biodiversità per raggiungere diversi obiettivi.
4) Scegliere l’area davvero giusta per il progetto di riforestazione. Quindi evitare di piantare alberi dove ci sono praterie, terre umide, ecc.
5) Favorire la ricrescita naturale delle foreste ogni volta che è possibile. Lasciar ricrescere gli alberi col loro sottobosco spontaneo è la scelta più naturale ed economica, ma spesso viene scartata per ragioni speculative.
6) Scegliere le specie arboree giuste per massimizzare la biodiversità. La soluzione ideale è un misto di specie locali, che combini qualche specie rara con altre che possono avere anche un valore commerciale; indispensabile evitare le specie invasive, che sono poi quelle allogene, cioè estranee all’habitat locale. In questo senso, anche se non impatta sull’ambiente, la scelta dell’amministrazione comunale di Milano di collocare palme e banani in piazza Duomo è culturalmente demenziale, perché popolarizza l’idea sbagliatissima che tutti gli alberi vanno bene dappertutto.
7) Assicurarsi che gli alberi che vengono piantati siano resistenti agli sbalzi climatici e ai cambiamenti climatici generali prevedibili.
8) Pianificare per tempo il modo di procurarsi i semi o gli alberi che si vogliono piantare, in collaborazione con la popolazione locale.
9) Combinare il sapere scientifico col sapere pratico locale. Fare dei test tenendo conto dei consigli della gente del posto, anche quando non sembrano avere basi scientifiche, prima di iniziare progetti su larga scala.
10) Fare in modo che tutti, compresi i residenti non direttamente coinvolti nei progetti, le popolazioni indigene e i ceti sociali più poveri, abbiano un qualche guadagno dal progetto di riforestazione. Com’è evidente, si tratta di comandamenti incompatibili con la sparata dei mille miliardi di alberi da piantare nel giro di nove anni, e con i quali i firmatari dell’impegno di Glasgow dovrebbero confrontarsi seriamente.
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