Meeting 2012. I santi necessari. Uomini all’altezza dei propri desideri
La natura sta a indicare ciò per cui un essere è nato, il suo destino. E la sua grandezza. Nonostante l’innegabile fragilità, l’uomo svetta perché la sua natura è definita dal rapporto con l’infinito; come risulta dall’esperienza struggente del desiderio umano, da quell’intima insaziabilità che lo rinvia di cosa in cosa nella speranza di una soddisfazione totale, orizzonte irraggiungibile e tuttavia incapace di tramontare. Nel Convivio, dove si misurava per la prima volta con i grandi plessi concettuali della filosofia, Dante aveva espresso così questa dialettica inarrestabile del desiderio: «Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare un augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose [l’anima] trova quella che va cercando, e credela trovare più oltre». Ma quell’oltre, l’«ultimo desiderabile» è solo Dio.
Mille testimonianze si potrebbero ancora addurre per documentare la tensione all’infinito che costituisce la struttura del cuore umano. Ma per ciascuno di noi, la prova più convincente si trova “dentro”, nell’esperienza della tristezza. Anche la più grande gioia ne è improvvisamente sorpresa. Eppure, la tristezza può rilanciare la ricerca; così come può, al contrario, consigliare una rassegnazione disperata. Tutto dipende dal credito che si dà alla promessa implicata nel nostro stesso desiderio. Non può essere un desiderio inutile quello che ci costituisce, saremmo inutili noi stessi, “di troppo”, come qualcuno ha detto, ma allora non si spiegherebbe il fatto che esistiamo. La disperazione è la conclusione più irragionevole cui possiamo pervenire.
Ma non è a furia di ragionare che se ne esce, e anche di questo abbiamo amara esperienza. Per quanto l’uomo voglia permanere sulla soglia vertiginosa dell’infinito, non riesce a sottrarsi alla tentazione dell’idolatria, cioè della soddisfazione “realisticamente” possibile. A meno che non abbia la fortuna di un incontro che lo confermi nella promessa originaria e nella speranza; quella di poter vivere sempre all’altezza dei propri desideri. Il cuore dell’uomo è fatto di esigenze fondamentali o ideali – diceva don Giussani ‒ ed è spinto verso il futuro nella direzione impressa da queste esigenze e dal desiderio che esse si compiano. Quando questo desiderio diventa certezza? C’è una promessa costitutiva del desiderio stesso; ma la certezza del suo compimento si acquista “fermamente” quando si riconosce la presenza nella storia di Cristo Risorto. Le esigenze del cuore dicono, infatti, che l’oggetto c’è. E che non può rimanere indisponibile. L’uomo dunque è destinato a essere felice, giusto e vero. E tuttavia, la certezza che questo accadrà non può essere sostenuta dal nostro cuore, può derivare soltanto da quella Presenza che la fede riconosce. Solo una simile Presenza può dar ragione di una certezza nel futuro. Perciò «la dinamica della speranza è un desiderio che non potrebbe resistere nel tempo, sarebbe sempre amaramente deluso, se non fosse sorretto, retto come ragione dalla fede, dalla certezza nel potere della grande Presenza».
Per don Giussani, il punto di partenza non è stato mai un appello al “senso religioso”, all’aspirazione all’infinito; ma il riconoscimento della grazia dell’incontro cristiano, nel quale il senso religioso dell’uomo trova risposta gratuita e alimento perenne. «Non si può parlare della vita umana in modo così pieno di pace e di esaltazione, pieno di certezza, di speranza e di gratuità, se non essendo stati investiti dall’avvenimento da cui siamo stati investiti, se non per la grazia dell’incontro con la presenza di Cristo». La conclusione che egli traeva era la necessità dei santi: uomini all’altezza dei desideri umani.
Esistono anche oggi, i santi. La forza del Meeting di Rimini è tutta nella documentazione di un fatto attuale, la presenza della santità nel cristianesimo.
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