
Marina Corradi: Antonio Simone e quelle lettere dal carcere

“Così vicino, così lontano”. Si intitola così l’editoriale di oggi di Avvenire, firmato da Marina Corradi che parla delle lettere inviate da Antonio Simone a tempi.it. Ne riportiamo alcuni stralci, invitando i nostri lettori ad acquistare, leggere e diffondere il quotidiano dei vescovi.
«Dal carcere milanese di san Vittore Antonio Simone (…) scrive; e il sito web del settimanale Tempi, di cui è fondatore, da due mesi publica. Simone dice di un detenuto che si autoevira, della lotta quotidiana con bande di scarafaggi che scorazzano a 15 centimetri dalla branda più bassa; di com’è, vivere in sei uomini in sette metri quadri – dandosi il cambio, chi sta sdraiato e chi sta in piedi. Annuncia che i suoi compagni chiedono di essere considerati non uomini, ma maiali».
«Che San Vittore, come del resto molte carceri italiane, sia un gran brutto posto, a Milano lo si sa bene. Un posto “disperato e disperante”, lo ha definito pochi mesi fa il sindaco Giuliano Pisapia. Solo che in generale a finirci sono extracomunitari e tossicomani, gente che raramente scrive, e che, qualora scrivesse non troverebbe molto spazio sui giornali. E dunque la corrispondenza di Simone, all’incrocio fra un carcere costruito a fine ottocento e il web, somiglia ormai a un caso mediatico. In buon italiano un detenuto della Milano borghese racconta come si vive in quel palazzaccio a tre minuti dalla basilica di Sant’Ambrogio».
«E su una platea abitualmente lontana dagli “utenti” delle carceri queste lettere fanno l’effetto di manoscritti in bottiglia lanciati da un’isola d’esilio in un oceano lontano; senonché quell’isola è nel cuore di Milano. Allora in qualcuno che legge sorge una domanda. Si sa che molte carceri italiane sono indecenti; e però che appena dietro il portone di piazza Filangeri si apra un altro mondo, proprio dentro questa Milano che si vanta di essere europea, capitale morale, amante della legalità, questo impressione. Qualcuno arriva persino a chiedersi perché, come è possibile; e per di più in un carcere in cui la grande maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio, e alcuni, come Simone, in carcerazione preventiva. Sarebbe a dire, ci si dice, che anche io, o mio figlio, magari per un errore, potremmo finire lì dentro?».
«Già, come è possibile? Forse lo è perché in un certo sentire diffuso e forcaiolo chi va “dentro” comunque se lo merita, e tanto peggio per lui. Forse, perché in termini di ritorno elettorale interessarsi di San Vittore non paga. A chiedere umanità e decenza nelle carceri ci sono soprattutto voci cattoliche, fra cui questo giornale, e, storicamente, i radicali».
«Adesso a San Vittore in molti hanno iniziato uno sciopero della fame contro il sovraffollamento – ci sono 500 detenuti oltre il limite massimo. La notizia finirà in poche righe sui giornali. Continueremo, passando da lì, a guardare a quelle finestre con le sbarre come a un oscuro confine di Milano. Da questa parte si beve il cappuccino con i croissant in piazzale Baracca, e si comprano i costumi per il mare. Là, degli uomini si stringono in celle bollenti, e all’ora d’aria restano in un angolo, sperando di passarla liscia. Qualcuno magari pensa di ammazzarsi; come, a febbraio, un ragazzo di appena 21 anni. Uomini e sottouomini. E Sant’Ambrogio appena laggiù in fondo; e il Palazzo di Giustizia a un quarto d’ora. Tutto così vicino – tutto così lontano».
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