
Marciare per il quoziente familiare
Se c’è un punto che tra i tanti stupisce chi qui scrive, è la ritrosia dei cattolici a trovare punti di unità nel richiedere alla politica provvedimenti conseguenti alla propria dottrina sociale, prima che all’esplicito magistero della Chiesa: quest’ultima richiesta, com’è noto, attira infatti la vieta e ricorrente accusa di cesaropapismo, sempre in agguato come riflesso condizionato da parte di un fetta di mondo laicista che non comprende essere chiusa da molti decenni, tanto ogni coda della Questione Romana che il filtro per tanti versi deviante rappresentato dal partito unico dei cattolici. Al contrario, esistono modi autonomi dalla diretta espressione attraverso i partiti, perché i cattolici possano mobilitarsi su temi sociali di fronte ai quali il nostro paese, per come si è evoluto il suo ordinamento amministrativo, giuridico e fiscale, oppone alte barriere e fieri ostacoli al perseguimento di alcune nozioni di “bene comune” che sono a fondamento del pensiero sociale cattolico. E, a voler essere equanimi, egualmente a fondamento di ogni idea di “bona vita”, qualunque sia l’atteggiamento individuale di ciascuno di noi in materia di fede.
Questa premessa per tornare su un tema che a chi scrive è molto caro: quello del fisco. Possibile mai che mettendo in conto l’uscita – anzi la defenestrazione – dal proprio partito, a chiedere una riforma come quella della flat tax, debba essere il solo Daniele Capezzone, mentre decine e decine di associazioni e movimenti cattolici in materia fiscale sembrano rassegnati a uno status quo terribile, che ci vede il paese in Europa più ostinatamente avverso alla famiglia per com’è organizzato il prelievo tributario e contributivo che grava sui suoi componenti? Abbiamo già fatto questo discorso un paio di volte, quando si è parlato di quoziente familiare e si è dimostrato carte alla mano quanto, a parità di componenti del nucleo e per qualunque scaglione di reddito, “costi” assai di più da noi il gravame pubblico che altrove. Capezzone ha solidissime ragioni, per chiedere una marcia di volenterosi per ottenere un sistema fiscale imperniato su un’unica aliquota del 20 per cento. I 36 miliardi di euro che apparentemente, rispetto a oggi, essa assicurerebbe di minor gettito allo Stato, come dimostrato da tutti gli altri paesi che l’hanno concretamente adottata nel mondo, si volgerebbero in realtà in un maggior gettito da assai più forte crescita dell’economia. E con un’ampia no tax area sottostante, e un oculato sistema di deduzioni fiscali mirate anche al carico familiare, essa realizzerebbe comunque il fine costituzionalmente stabilito della progressività del prelievo. Ma quello della flat tax è solo un esempio e vale solo perché nessuna delle riforme che servono per rendere lo Stato meno ostile alla crescita e alla famiglia può avvenire “coeteris paribus”. Per un’Italia meno prigioniera degli statalisti difensori dell’unica etica di Stato, occorrono riforme capaci di essere progettate sapendo che esse cambierebbero dalle fondamenta il modo stesso in cui l’Italia funziona. Con conseguenze assai migliori dell’invarianza a cui pensa il partito dei finti ragioneri del rigore, che oggi vanno per la maggiore in nome di più tasse e più spesa pubblica. Fossi alla testa di una grande associazione cattolica io una marcia per il quoziente familiare secco, tutto e subito, la farei senza pormi il problema delle obiezioni dei professori e dei “no” dei conservatori.
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