Mangia Dop(e non dopati)

Di Esposito Francesco
30 Giugno 1999
Diossina, funghicidi, prioni e ormoni: tutte le alchimie chimiche dei cibi che finiscono sul nostro tavolo da pranzo. Tra i controlli incrociati (e un po’ confusionari) degli enti italiani, la difficile arte di fare la spesa evitando i veleni

Bei tempi quelli del “piacere di fare la spesa”. Non bastava il prione della mucca pazza, adesso arrivano sugli scaffali dei supermercati comunitari anche i polli nella micidiale variante alla diossina e le coche col funghicida a creare il panico, aumentando l’allerta sanitaria. È lecito, a questo punto, chiedersi che cosa mai finisca nei nostri piatti e quale sia l’efficacia di quei controlli che dovrebbero salvaguardare la salute del consumatore. In effetti, la Comunità Europea è dotata di un sistema che garantisce la qualità dei prodotti alimentari, con criteri e verifiche piuttosto severe. Una normativa “orizzontale”, in cui viene delegato alle stesse aziende produttrici (di qualsiasi dimensione) la responsabilità di rispettare i requisiti di legge. In pratica il produttore si autocertifica dal punto di vista igienico sanitario, dichiara quali sono i “punti critici” nel processo produttivo della sua azienda e chiarisce quali precauzioni vengono utilizzate per garantire una lavorazione sicura.

All’ente pubblico non rimane che fare da garante, ovvero svolgere periodici controlli “a campione” per verificare che vengano effettivamente rispettate tutte le norme previste dalla legge.

Si tratta di un modo di procedere tipico dei paesi anglosassoni, che in Italia, dove tutto è stato sempre gestito molto più centralmente, arriva con qualche ritardo. Ma, a onor del vero, non si può dire che su queste materie il nostro paese sia arretrato: per certi versi, anzi, siamo addirittura all’avanguardia, il problema semmai, qui come in altri campi, è quello di riuscire a rendere attive ed efficaci le leggi esistenti.

Basti pensare ai controlli alimentari: l’Ispettorato Repressione frodi, alle dipendenze del Ministero per le Politiche agricole; i Nas (Nuclei Anti-sofisticazione) dei Carabinieri, collegati al Ministero della Sanità; il drappello anti-sofisticazioni della Guardia di Finanza; i servizi di Igiene e profilassi delle varie Usl; i servizi di controllo delle provincie; i servizi dell’annona dei grossi comuni; tutti deputati a esercitare, prevenire e combattere irregolarità nel campo dei prodotti alimentari, sebbene in forme e settori diversi. Si capisce che una pluralità tale di enti di controllo, tutt’altro che coordinati tra di loro, spesso con un organico ridotto, nonostante la buona volontà (e i turni di superlavoro cui spesso sono costretti i funzionari), finisce col creare confusioni di ruoli e di responsabilità. Ma, posto che la situazione potrebbe migliorare, non si deve credere che una intensificazione dei controlli risolverebbe di per sé i problemi. Come si dice, “fatta la legge, trovata la gabola”. Anche quando si tende a regolamentare tutto, inevitabilmente, si creano dei vuoti, rimangono degli spazi dove, chi volesse aggirare i controlli, potrebbe inserirsi. E il caso del Belgio lo dimostra. Tanto più che le irregolarità in questo caso c’erano già dallo scorso aprile, e hanno potuto proseguire fino a oggi. Ma gli stessi commissari europei che, settimana scorsa, hanno compiuto le loro indagini, non hanno saputo dire nulla circa le responsabilità di quanto è accaduto: da dove sia partita l’irregolarità e chi l’abbia autorizzata. Del resto gli stessi test di controllo necessari per stabilire la presenza di diossina negli alimenti sono costosi e molto lunghi: centinaia di bestie verranno abbattute e eliminate in via cautelativa, senza aspettare esiti che arriverebbero comunque troppo tardi.

D’altra parte non si può neppure pensare di salvaguardarsi alzando il livello degli standard, così da ottenere una supposta igiene e asetticità “totale”. Non si otterrebbe altro che una grande omologazione su norme standard, dove non ci sarebbe neppure più un batterio a vagolare. Ma non potremmo parlare neppure allora di “rischio zero”. La Coca-Cola è senz’altro il massimo esempio della sicurezza secondo le norme internazionali: tutte le fasi della produzione sono monitorate, asettiche, trasparenti, hanno ogni certificazione Iso possibile… eppure, è accaduto l’impensabile: un funghicida è riuscito a contaminare la bevanda.

Senza contare poi che criteri così stretti creerebbero problemi non indifferenti alle nostre produzioni. L’Italia, infatti, come tutti i paesi mediterranei, ha una profonda tradizione di prodotti legati alle particolarità del territorio, al clima, ai talenti umani e alla sua storia (del tutto diversa è la situazione, ad esempio, nei paesi nordici). Ci sono perciò nobilissime produzioni tipiche che poco hanno a che fare con le asettiche norme sanitarie europee. Tutte destinate a sparire, secondo questa logica.

Pensiamo al formaggio delle malghe, ad esempio, che fortunatamente la Regione Lombardia ha da poco deciso di salvaguardare con un finanziamento.

Si tratta, come si capisce, di una straordinaria ricchezza per il nostro paese. Tra l’altro, la legislazione della Comunità Europea tutela già i prodotti agroalimentari di qualità, in particolare con la regolamentazione Dop (Denominazione di origine protetta) che valorizza proprio la qualità e la tipicità.

Anche in questo caso purtroppo l’Italia è arrivata in ritardo, tanto è vero che, a suo tempo, non ha richiesto la registrazione come prodotti tipici della mozzarella e della pasta, con il risultato che chiunque, da ogni parte del mondo, poteva produrli con quella denominazione (naturalmente con standard di qualità ben lontani dagli originali). Adesso fortunatamente stiamo correndo ai ripari: i prodotti Dop riconosciuti dalla Comunità europea per il nostro paese sono già 52, e moltissimi altri sono in lista di attesa.

Insomma, in tutti i processi alimentari, trattando con materia viva, i rischi sono sempre possibili. È vero però che prodotti come quelli Dop danno senz’altro delle garanzie maggiori di qualità, e tra l’altro, con una piccola differenza di prezzo. Per questo, forse, la via più semplice per evitare le sofisticazioni potrebbe essere quella di riappropriarsi della nostra cultura e della nostra tradizione alimentare.

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