«All’inizio mi chiedevo, è giusto avere accettato gli ovociti di un’altra? Poi scendeva in campo l’altra me che mi spingeva a non ragionarci troppo. Una vocina dentro mi diceva, ti è arrivato dal cielo questo regalo, goditelo». Sono le parole della prima donna che ha partorito in Italia due figli ottenuti in laboratorio grazie alla fecondazione eterologa. E con queste il Corriere della Sera ieri raccontava l’evento pur ammettendo che «nei centri mancano donatori di gameti». Pasquale Bilotta, ginecologo e direttore dell’Alma Res, il centro di Pma che ha seguito la donna, spiegava al quotidiano che «bisogna utilizzare materiale biologico fresco» e che «il congelamento riduce le percentuali di riuscita». Ergo, «le donatrici giovani sono necessarie e occorre creare una cultura favorevole». Ma come? Poiché difficilmente una donna dona i suoi ovuli per “altruismo”, Bilotta suggeriva che una qualche forma di pagamento, ora vietato in Italia, andasse previsto: «Va garantito un rimborso spese proporzionale all’impegno fisico».
NON QUANTO MA COME. Discorso delicato quello dei rimborsi, che può facilmente aprire a forme di sfruttamento. Eppure c’è chi si spinge ancora oltre. Come Ruth Walker e Liezl van Zyl, due professori e ricercatori neozelandesi dell’Università di Waikato, che hanno avanzato l’ipotesi di rendere la maternità surrogata, conseguenza diretta dalla fecondazione eterologa, un vero e proprio lavoro. Secondo loro, infatti, il modello commerciale dei rimborsi dà troppo potere contrattuale ai “compratori”. Perché non «è il pagamento in sé ad essere pernicioso», ma «il difetto sta nel modo in cui avviene il pagamento». La proposta dei due studiosi è di regolarizzare i pagamenti e i rapporti tra le parti, un po’ come si fa con le balie o le tutrici. Rendendo queste donne delle professioniste, si potrebbe istituire un’autorità vigilante sulle condizioni mentali e fisiche delle “donatrici”. Grazie all’apposito contratto la “mamma surrogata” non sarebbe obbligata a fare nulla contro la sua volontà solo perché ordinato dagli “affittuari”, «come abortire un bimbo malato». Cosa che naturalmente potrebbe sempre fare nel caso lo desiderasse anche lei. Condizionati da questi limiti, i genitori sarebbero così costretti a pagare anche nel caso di un figlio “difettoso”, eliminando l’opzione “soddisfatti o rimborsati” prevista in tanti altri contratti commerciali. E se per qualunque ragione la coppia non vorrà più il piccolo lo potrà sempre dare in adozione.
In questo modo ognuno sarebbe tutelato e tutti i firmatari del contratto di lavoro sarebbero posti sullo stesso piano. L’unico a non avere voce in capitolo resterebbe il nascituro.
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