«Non sapevo che le detenute madri tenessero con loro, in cella, i propri figli. È per questo che ho deciso di scrivere un libro. Perché tutti venissero a conoscenza di quanto è difficile essere mamme in prigione». A parlare così a tempi.it è Cristina Scanu, inviata del programma L’ultima parola di Gianluigi Paragone, autrice del libro Mamma è in prigione (JacaBook, 15 euro, 222 pagine). Un libro che fa il punto sulla situazione delle carcerate madri attraverso le parole delle detenute stesse. Ci sono donne che entrano e escono dal carcere da quando hanno 18 anni, donne che sono state arrestate quando erano incinte e donne che una volta uscite vogliono davvero rifarsi una vita, ma si trovano a scontrarsi con i pregiudizi della gente.
NUMERI. L’ultimo rapporto sulla situazione delle donne in carcere risale agli anni Novanta, per questo Scanu ha voluto fare un quadro attuale, fornendo numeri che dessero al lettore l’immaginario del carcere al femminile. «A giugno 2012 – spiega – le donne in cella erano 2.820, contro gli oltre 66 mila uomini rinchiusi. Di queste il 90 per cento è madre». I bambini attualmente rinchiusi in cella con le loro madri invece sono una sessantina e vi rimarranno fino al compimento del terzo anno di età. Non un giorno di più. Dal 1° gennaio 2014 entrerà in vigore una legge che permetterà ai bambini di rimanere in cella con le loro mamme fino ai 6 anni. Ma non è questa la soluzione.
STRUTTURA IDEALE. «La cosa più giusta è cercare di creare strutture che permettano ai bambini di vivere liberi, non segregati in una cella in cui devono stare due adulti e due bambini – racconta Scanu – L’Icam di Milano è attualmente la struttura ideale. Solo che i costi sono alti e non tutte le regioni possono permettersi di costruire strutture simili». Icam sta per Istituto a custodia attenuata per detenute madri con prole, ospita fino a 12 mamme, ha un asilo nido e le donne che stanno scontando la pena possono usufruire di servizi di reinserimento sociale. Difficile stabilire se soffrano di più i bambini in carcere o quelli costretti a rimanere fuori. «Viene spesso detto loro che la mamma è in ospedale. Viene omessa parte della verità per non farli soffrire, ma poi a un certo punto si ottiene l’effetto opposto e i piccoli cominciano a chiedersi: perché non posso andare a trovare la mamma, perché non mi chiama?».
LAVORETTI. In carcere alcune detenute fanno dei lavoretti. Per passare il tempo, per guadagnare qualcosa. «I lavori tra le pareti del carcere vengono chiamati con nomi buffi. Puoi fare la “spesina”, cioè occuparti di fare la spesa, la “scopina”, cioè occuparti della pulizia di corridoi e spazi comuni, o la “portavitto”, cioè portare i pasti nelle celle. Lavoretti che solo una detenuta su quattro può fare, ma che aiutano a scandire le giornate. E a guadagnare quanto la famiglia non riesce a passarti, visto che sono soprattutto straniere». Sono poi “fortunate” quelle donne detenute in una struttura dove operano cooperative che insegnano loro un mestiere e competenze spendibili una volta uscite. Come Made in carcere, che spiega alle detenute di Lecce come ricavare borse da materiali di riciclo.
RAPPORTI UMANI. Le persone con cui hanno più a che fare le detenute sono le agenti penitenziarie. Donne, come loro, con le quali molto spesso si instaurano rapporti umani e si condividono le mura. «Qui fai la vita delle detenute. Se in sezione si muore di caldo, muori di caldo anche tu. Se quando piove, entra acqua dal soffitto, ti bagni. Se qualcuna urla, disturba anche te non solo le compagne di cella», ha raccontato Daniela (agente del carcere di Pontedecimo) all’autrice.
NIENTE ASSORBENTI. Una delle tre strutture penitenziarie che soffrono il problema del sovraffollamento, insieme a Rebibbia, che ha il più alto numero di donne in cella, è Pozzuoli, ex convento convertito in carcere, con 12 persone per cella. In queste condizioni, ricordarsi ancora di essere donne è molto difficile. «All’ingresso le neo detenute vengono private di ogni oggetto personale e viene dato loro il necessario per vivere – continua Scanu – Per il resto, si deve far ricorso al “bettolino”, un negozio interno, con prezzi spesso più cari, al quale si può accedere previa domanda al direttore della struttura». Le condizioni igieniche sono spesso molto difficili: «Nel carcere di Torino non c’è la carta igienica, né assorbenti femminili, né docce in cella, pur essendo previste dal regolamento del 2000. La verità è che i carceri sono pensati per uomini e non vengono riadattati per ospitare donne. Tanto meno madri, che devono dividere lo spazio già esiguo della cella con i bambini propri e altrui».