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Magistrato di sinistra attacca la Procura di Palermo e scoppia il putiferio tra le toghe

Trattativa Stato-mafia. La notizia dell'indagine all'ex ministro della Giustizia Conso e la difesa del procuratore romano Nello Rossi hanno acceso un dibattito tra i magistrati

Chiara Rizzo
19/06/2012 - 15:02
Interni
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Tra il 9 e il 13 di giugno, è arrivata la notizia della chiusura delle indagini della procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia (atto che non è stata firmato dal procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, e dal sostituto Francesco Guido che ha coordinato le indagini dei pm Ingroia e Di Matteo): con questa è giunta anche la notizia dell’iscrizione al registro degli indagati di due ex ministri. Uno è il ministro dell’Interno dal ’92 al ’94 ed ex vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: Mancino al processo sulla trattativa, ha affermato di non averne mai saputo nulla, mentre per i pm palermitani avrebbe saputo di un accordo con la mafia fin dal suo insediamento al Viminale, e forse (secondo la procura) lo avrebbe appreso da Paolo Borsellino. L’altro ex ministro, indagato per false informazioni ai pm, è il Guardasigilli (dalla fine del ’92 al ’94) Giovanni Conso (in foto).

Immediatamente dopo quest’ultima notizia, tramite l’agenzia stampa Ansa si è letta una dichiarazione sorprendente di Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma ed esponente di spicco della corrente di sinistra della magistratura, Md. Rossi ha criticato l’operato dei pm palermitani: «La notizia del prof. Giovanni Conso indagato suscita in me sentimenti di incredulità e di profonda preoccupazione. Conosco il prof. Conso solo per quanto ha fatto nella sua attività di studioso, per l’esemplare rettitudine con cui ha interpretato, in momenti drammatici, i diversi ruoli istituzionali». Perciò, ha aggiunto Rossi, «sono proprio queste caratteristiche dell’uomo, del resto a tutti note, che mi appaiono assolutamente inconciliabili tanto con la menzogna quanto con l’accettazione di compromessi dettati da una vera o presunta ragion di Stato. Sento il bisogno di questa testimonianza anche per evitare che nella magistratura, tacendo sui motivi di allarme e di dissenso generati da vicende giudiziarie in corso, rinasca lo spirito di corporazione del passato, contro il quale, insieme a tanti colleghi, mi sono sempre battuto».

La posizione di Rossi è stata molto commentata nella mailing list dei magistrati di Area (la corrente che raccoglie Md e Movimento per la giustizia), tanto che, in poche ore e poi per tutti i giorni seguenti, si sono succeduti numerosi interventi, spesso molto critici nei confronti di  Rossi. Stupore, sgomento, rabbia, dolore: tutta la gamma delle emozioni umane è passata nelle righe delle toghe. Perché, hanno ragionato moltissimi magistrati, esprimere solidarietà ad un indagato significa andare contro il lavoro dei colleghi. «Legittima la stima, ma in quel frangente e per quel ruolo andrebbe espresse in modo riservato, riservando eventuali commenti solo all’esito del procedimento o almeno a un momento in cui le carte si conoscono», scrive ad esempio un procuratore generale di Bologna. «Se anche tra un mese venisse fuori che Conso è stato archiviato con mille scuse, (quello di Rossi, ndr) è un metodo che rischia di delegittimare i colleghi che indagano». A questo commento se ne sono succeduti diversi altri, che sottolineano la necessità della lettura delle carte, prima di esporsi per un imputato. Tanti messaggi da far intervenire seccamente anche l’ex segretario dell’Anm, Giuseppe Cascini, che, come riportato dal blog Live Sicilia, scrive: «Ribadisco il mio sentimento di stima a Conso, che a 90 anni si trova inquisito. Chiunque legga il Fatto Quotidiano conosce il contenuto dell’inchiesta. E comunque, per il bene della magistratura, spero che nell’indagine ci sia qualcosa in più rispetto a quello che è venuto fuori».

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La domanda attorno cui ruota il dibattito-scontro è se sia giusto prendere posizione in difesa di un indagato, qualora si sappia che egli è una persona affidabile. È possibile una fiducia umana che trascenda dall’apertura di un’inchiesta? Scrive un giudice del tribunale di Roma: «Dunque pare condiviso da molti degli iscritti a questa lista che sarebbe “sempre inopportuna qualsiasi attestazione di stima per l’indagato quando vi sia un procedimento penale in corso, tanto più da parte di un magistrato”. Si badi bene: non “qualsiasi critica all’azione giudiziaria” , ma addirittura “qualsiasi attestazione di stima” per l’indagato. Basta quindi che qualcuno domattina denunci, che so, don Ciotti, di associazione mafiosa e stupro di gruppo e che la Procura competente lo iscriva a registro, che anche quanti lo conoscono e lo hanno seguito, e gli sono stati a fianco magari per una vita, magari magistrati, non possono pubblicamente testimoniare umanamente l’immutata stima nell’uomo, e di non credere nell’accusa. L’iscrizione a registro come condizione risolutiva del diritto di esprimere vicinanza umana. Il tutto in nome di una sorta di sacrale non criticabilità dell’intervento giudiziario in itinere. Ma stiamo scherzando? Che sia questo il corporativismo rinascente (o mai morto) a cui si riferiva Nello Rossi?». L’interrogativo, in realtà, ne cela un altro: si scatenerebbe mai un simile bailamme, se ad essere indagati non fossero personaggi stimati dall’area di centro sinistra come Conso? Al di là della colpevolezza o innocenza di Conso, perché tali reazioni non si sono avute per esempio per gli ex vertici del Ros, imputati nello stesso processo, quando contro loro hanno deposto mentitori conclamati da altre sentenze giudiziarie (Michele Riccio e Massimo Ciancimino)?

Ad ogni modo, dietro i punti interrogativi, Area si spacca. Un gip di Napoli, dopo l’intervento di Rossi e di chi ne difende la posizione, presenta pubblicamente le dimissioni da Area. Si prosegue nelle censure a Rossi, fino alla email di un giudice di Perugia. Che candidamente pone nuove domande: «Ma l’esercizio del diritto del critica non vale anche per i magistrati e i loro provvedimenti? Se è contenuto nei limiti non dobbiamo forse tollerarlo senza sentirci “delegittimati” come controaltare dell’indipendenza che ci viene riconosciuta? Ma dove viene questa idea che si possano esprimere opinioni su nostri provvedimenti solo in maniera “molto, molto riservata”? Tutti i giornali parlano della vicenda e si sta svolgendo un processo pubblico a Palermo: possiamo pretendere solo al nostro interno il silenzio?».

La lunga serie di interventi prosegue in queste ore: lo stesso Rossi ha dovuto richiarire le proprie posizioni, proprio stamattina. Rossi ha fatto presente come il reato per cui è indagato Conso, le false informazioni al pm, prevede che le indagini siano “congelate”, sinché non si giunga ad una sentenza di condanna per il processo in corso a Palermo. Rossi ha spiegato: «Il risultato oggettivo è che ci può essere un indagato in lunghissima attesa di un processo di là da venire, che forse per Conso non verrà mai». Chiarisce anche le ragioni umane che lo hanno spinto a parlare: «Di fronte a questa prospettiva come non sentire un moto di solidarietà, di con-passione, verso un galantuomo novantenne? Ho immaginato di essere chiamato a rispondere, magari a 90 anni, di una mia scelta di venti anni prima, di non essere creduto, di dover attendere negli ultimi anni della mia vita un processo incerto. Ho avvertito una situazione di disagio. E ciò perché non dobbiamo dimenticare nei confronti del singolo cittadino un enorme potere». Rossi ha spiegato di non pensare di aver contraddetto la regola dell’uguaglianza degli indagati perché ha solo espresso, sulla base di ciò che ha conosciuto mediaticamente dell’inchiesta, che «era lecito avere forti dubbi».

Ma non appena Rossi ha cliccato il tasto invia della sua mail, nuovi rovi pungenti si sono creati intorno alla vicenda. Stamane il Fatto quotidiano ha dato infatti notizia, con ben due articoli (un editoriale on line di Marco Travaglio, “Si dimette nessuno?”) e un articolo di cronaca sul quotidiano cartaceo, delle telefonate fatte da Nicola Mancino, a margine degli interrogatori avuti con i pm di Palermo. Secondo le ultime indiscrezioni emerse sul Fatto, infatti (probabilmente provenienti dall’ambiente della stessa procura di Palermo, visto che si citano stralci dei brogliacci di intercettazione disposte sul telefono dell’ex ministro dell’Interno), Nicola Mancino avrebbe fatto pressioni sul procuratore generale di Cassazione Vitaliano Esposito, e sul consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, perché in qualche modo intervenissero sui pm palermitani (il pg di Cassazione, in particolare, è titolare dell’azione disciplinare presso il Csm; ndr). Mentre sono già arrivate alla redazione e pubblicate le smentite di qualsiasi pressione, da Esposito e dal Quirinale, c’è però anche l’articolo del Fatto cartaceo, che sapientemente, tra le righe annota: “Una raffica di telefonate che coinvolge, oltre a Esposito e D’Ambrosio, il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi”. Nient’altro in più si sa su queste eventuali telefonate, se effettivamente esse siano legate alle pressioni di Mancino e come. Tanto basta a riaprire la polemica delle mail tra le toghe: “Solidarietà ad un uomo che stimo come Conso?, ci scrive Rossi. Altro che solidarietà ad un uomo specchiato, ci spieghi le telefonate”.

Tags: Giovanni ConsoGiuseppe CasciniNello RossiNicola Mancinotrattativatrattativa Stato-Mafia
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