
Magdi Allam
Da quando, quattro anni fa, gli assegnarono una scorta numericamente paragonabile solo a quella di un presidente del Consiglio, Magdi Allam dice e scrive ogni giorno parole definitive. Verga muscolari articoli con la veemenza di chi molto s’indigna perché molto ama. Pubblica testi che i commessi delle librerie nascondono tra gli scaffali per evitare vetrine frantumate e che, regolarmente, risultano fra i più venduti. S’espone in dibattiti pubblici con il tono impetuoso e profetico di chi sa di avere un nemico ed è pronto a sfidarlo. «Se proprio devo morire, voglio morire da persona viva e libera. Meglio morire una volta sola da persona libera che tutti i giorni da zombie sottomesso».
Allam ha la percezione del nemico, entità e parola che un’Europa invertebrata ha sostituito col concetto di avversario e con la fisionomia dell’interlocutore ad oltranza. Forse proprio perché s’è abituato a mettere questo suo corpo all’apparenza gracile e timido dentro l’agone pubblico, Allam ha trovato nella sofferenza ancestrale dei figli d’Israele la metafora di un sé continuamente minacciato da chi «ama la morte più di quanto noi amiamo la vita». «è da quando ho compreso che il terrorismo di matrice islamica – spiega a Tempi – è approdato a un nichilismo che eleva la morte a ispirazione per guadagnare il paradiso, che ho compreso il valore della sacralità della vita». Non molto tempo fa, sulla tv Al-Aqsa, controllata da Hamas, un giornalista in giacca e cravatta chiedeva a due bambini in età d’asilo, figli di una terrorista suicida palestinese, «quanti ebrei ha ucciso la mamma?». E quello più piccolo impennava le cinque dita della mano aperta. «E cosa ha fatto la mamma?». «Il martirio». «E tu vuoi andare dalla mamma?». «Sì», rispondevano senza capire, mentre salterellavano sulla sedia dello studio.
è solo uno degli ultimi esempi. Dice Allam che questo continuo spregio del valore dell’esistenza che fa di sé un’arma mortifera, l’ha convinto che «è in atto un processo nefasto che sta portando la nostra civiltà in un baratro. A suicidarsi in un abisso nero. Solo difendendo la sacralità della vita si può garantire la pace per tutti. Oggi, noi vediamo che ad Israele è negato il diritto all’esistenza ed è per questo che Israele è un simbolo vivo da difendere. Non c’è molto da stare allegri. Possiamo confidare solo negli israeliani e in papa Benedetto XVI. Ma sono molto preoccupato perché siamo in un momento storico in cui la politica israeliana è fragile e vediamo che anche il Pontefice, spesso, non è sostenuto dentro la Chiesa così come dovrebbe essere».
Embrione di vichingo
Allam si trova nella singolare posizione di musulmano laico che difende le ragioni d’Israele. D’altronde s’è abituato a prendere posizioni urticanti e scomode: è stato l’ispiratore della Consulta islamica ai tempi del ministro Beppe Pisanu, da cui poi s’è distanziato quando questi ha accettato come interlocutori gli esponenti italiani dell’Ucoii (Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia). Ha polemizzato con l’attuale ministro Giuliano Amato per il lassismo con cui sta conducendo i suoi dialoghi con gli stessi rappresentanti dell’Ucoii, quinta colonna dei Fratelli musulmani in Italia, antisionisti e antiisraeliani che non hanno firmato la cosiddetta Carta dei valori in cui si riconosce a Israele il diritto all’esistenza. Allam era davanti all’ambasciata iraniana a Roma il 3 novembre 2005 per protestare contro le affermazioni antisioniste del presidente Mahmoud Ahmadinejad. è da qualche anno ospite fisso al Meeting di Rimini. Ha aperto il pellegrinaggio Macerata-Loreto con un appello affinché il culto di Maria diventi un momento unificante per musulmani e cristiani. Quando in Italia ferveva il dibattito sulla manipolabilità degli embrioni dichiarò a questo settimanale che non sarebbe andato a votare al referendum sulla legge 40 perché spaventato dalla pubblicità di una società danese che promuoveva la vendita di sperma con questo slogan: «Congratulazioni! è un vichingo». Allam ha ricevuto innumerevoli premi per il suo lavoro: recentemente a Washington è stato insignito del Mass Media Award dall’American Jewish Committee e in Israele del premio internazionale Dan David. Alla cerimonia di quest’ultimo, il suo discorso è stato accolto da un’insolita standing ovation e dalle parole del presidente Moshé Katsav: «Se tutti gli arabi fossero come lei, noi oggi vivremmo in pace».
Un titolo scontato (o no?)
In questi giorni di promozione del suo libro, Allam si stupisce quando qualcuno deglutisce leggendo il titolo Viva Israele. «Gli amici sbuffano: ma chi te l’ha fatto fare? Chi ha un pregiudizio nei miei confronti, invece, lo vede confermato: ecco il solito Allam, il traditore, il venduto. Eppure è un’affermazione di una semplicità inaudita; augurarsi che un popolo e degli uomini possano vivere mi pare scontato. Che così non sia, e non solo nei paesi arabi, dove sarei condotto immediatamente davanti a un plotone d’esecuzione, ma anche in Italia, è un’altro indice del fatto che l’esistenza di Israele è il problema che dobbiamo affrontare». Il Foglio di Giuliano Ferrara è uscito il 15 maggio avvolto dalla reclame del volume. Non era solo pubblicità. «Sono molto grato al direttore di questo atto di coraggio in un contesto in cui sappiamo che il pregiudizio è forte e che comunemente si pensa che scrivere “Viva Israele” sia deleterio per l’immagine e per le vendite».
Non c’è giorno in cui Allam non denunci la collusione tra i sedicenti rappresentanti dell’islam italiano e gli esponenti del terrorismo internazionale, in cui non elenchi le malefatte di un qualche “glorioso” esponente dell’islam “moderato” che le nostre università invitano in sontuosi convegni interculturali, in cui metta in guardia dalla lingua biforcuta di chi parla di dialogo e sottintende sottomissione. La sua caparbia testardaggine gli ha portato in dote l’astio del milieu accademico italiano. Il sociologo Stefano Allievi, docente all’università di Padova, una volta lo attaccò subdolamente paventando la necessità di liberarsi di quel «fattore Allam» deleterio per la politica italiana. «Fu un’affermazione grave», dice Allam a Tempi. «Sono parole che tendono a criminalizzarmi, a indicarmi come il responsabile della radicalizzazione dello scontro. Parole del genere, fatte da un docente universitario, producono un’implicita alleanza con gli estremisti, che da tali giudizi si sentono confortati nei loro mefistofelici intenti». Allam è duro con il mondo universitario italiano che si occupa di islam e di questioni mediorientali: «è una cricca ideologizzata e collusa con l’estremismo. Negli ultimi dieci, quindici anni, molti di loro hanno valorizzato e legittimato personaggi ambigui che negano l’esistenza di Israele, che inneggiano ai terroristi, che stanno costruendo in tutta Europa moschee-roccaforti di oltranzisti».
Allam s’è soprattutto scontrato con il campione dell’ambiguità islamica, Tariq Ramadan, esponente di punta dei Fratelli Musulmani, le cui teorie hanno largo seguito in Europa. «Ma non solo» aggiunge Allam. «Sono filooccidentale e ho sostenuto le ragioni dell’intervento in Iraq. Ma non posso nascondere il mio sconcerto nel vedere George W. Bush e Tony Blair dare credito ai Fratelli Musulmani. Avallarne l’ascesa al potere significa favorire un’estremizzazione dell’islam nei paesi arabi e indebolire l’identità occidentale in Europa. è una follia».
Manifesto in tasca e kefiah al collo
“Conoscendo Arafat mi sono liberato dei pregiudizi su Israele” è il titolo di uno dei capitoli del libro. Allam ricorda quando sfilava per le piazze italiane «con la divisa ideologica d’ordinanza: stivaloni da battaglia che sanno di stato d’emergenza, jeans che sanno di proletariato, eskimo preferibilmente grigioverde che sa di guerriglia urbana, borsa di cuoio dell’artigiano di Tolfa che sa di solidarietà operaia, il giornale del partito infilato nel retro dei pantaloni che sa di lotta di classe, infine, come distintivo della militanza terzomondista, la kefiah palestinese a scacchi bianchi e neri da avvolgere al collo». Erano gli anni Settanta e Arafat «era il mio mito», racconta a Tempi. Leggeva Lotta Continua e l’Unità, scrisse il suo primo articolo sul Manifesto. «Ero un fan convinto di Arafat, ma col tempo mi sono accorto che è stato un leader che ha avuto più a cuore la propria posizione che il bene del suo popolo. Emblema di questo suo atteggiamento è stata la rinuncia a siglare i trattati di Camp David nel 2000. Avrebbe potuto dare uno Stato ai suoi connazionali. Vi rinunciò per mantenere i propri privilegi».
Allam fa onestamente di se stesso l’emblema di un certo modo acritico di intendere il conflitto israelo-palestinese. Riporta ampi stralci di una conferenza che tenne davanti agli studenti di un liceo romano nel 1988, in cui «mai nessuna considerazione veniva espressa sul fatto che l’Olp praticasse su larga scala il terrorismo fuori e dentro Israele». Chiosando se stesso, Allam fa notare al lettore le sottovalutazioni e le censure che lo portavano allora a guardare al conflitto in maniera unidirezionale. Se oggi ritornasse davanti a quei giovani integrerebbe il suo racconto con altri dettagli, con altri punti di vista, con altre citazioni. Su tutte, quella che Zahir Muhsein, membro del comitato esecutivo dell’Olp, rilasciò al giornale olandese Trouw il 31 marzo 1977: «Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno Stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo Stato di Israele, per continuare la nostra unità araba».
«Vorrei fosse chiara una cosa – spiega oggi Allam -, io sono favorevole a uno Stato per i palestinesi. Ma non si possono censurare alcuni fatti della storia, non ci si può concentrare sui singoli fotogrammi rifiutandosi di vedere l’intero film. Il mio non è un libro contro i palestinesi, è un libro per tutti, perché il diritto all’esistenza di Israele è il diritto all’esistenza di tutti». Ma comprendere significa immedesimarsi. «Bisogna calarsi nel vissuto del popolo ebraico, nelle sue vicessitudini, affrancarsi dai luoghi comuni». Allam narra di una volta in cui, durante il periodo dei kamikaze palestinesi nei locali israeliani, entrò in un’agenzia di viaggi di Gerusalemme. «Vidi la paura negli occhi dei presenti». I suoi tratti somatici li avevano ingannati. «Se non si capisce che questo è un popolo che vive nella paura non si capirà mai che Israele combatte non perché è uno Stato violento, ma solo per preservare la propria presenza e il proprio futuro».
Come chiamerò mio figlio
Allam è nato al Cairo nel 1952. Tra vicoli brulicanti e variopinti è cresciuto, sui banchi di scuole cattoliche si è formato. Era l’Egitto di Nasser in un momento storico cruciale: finiva un’epoca di sostanziale libertà dei costumi e iniziava l’era del risentimento ideologico contro Israele che aveva sconfitto il paese dei faraoni nella Guerra dei sei giorni del 1967. Narrando i colori, gli odori, i suoni della sua giovinezza Allam dipinge «un mondo – dice oggi – genuino e ingenuo, contraddistinto da una cultura volta alla solidarietà sociale, basato sulla fiducia nell’altro e sul rispetto delle tradizioni. Ma anche godereccio, divertente, allegro». Poi, «il regime, tramite le trasmissioni via radio, instillò in un popolo sostanzialmente analfabeta il veleno dell’odio. Fece diventare Israele il capro espiatorio dei mali del mondo. è stato un lavaggio del cervello collettivo perpetrato su un terreno vergine».
è per questo che oggi è così ansioso per la situazione italiana. Coi dovuti paragoni, spesso accade anche qui la medesima vicenda. «Quando sento parlare del terrorismo come fenomeno di natura reattiva e non aggressiva, quando sento certi discorsi così fortemente antiisraeliani e antiamericani, mi preoccupo. Che cosa stiamo insegnando ai nostri giovani?». E lui cosa insegnerà al figlio che tra poco sua moglie Valentina darà alla luce? «Questo bambino rappresenta per me la certezza della vita che continua e la speranza per un futuro migliore». Si chiamerà Davide. Un nome ebraico.
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