Ma perché ridurre Leopardi a un damerino nichilista petulante ed eternamente corrucciato senza far sentire almeno un alito, un refolo, un bisbiglio del vigore della sua poesia? I giornali hanno scritto che Il giovane favoloso è stato definito dal regista Mario Martone come «un ribelle, un Kurt Cobain dell’Ottocento». Mio Dio. E i critici hanno pure trovato tale similitudine azzeccata per spiegare chi fosse il poeta di Recanati. Vi prego. Anche il peggior professore di liceo rifilerebbe un quattro a un alunno che osasse tanto.
Presentato a Venezia, il 16 ottobre nei cinema, il film che Tempi ha potuto vedere in anteprima narra la vita del poeta che Gianfranco Contini definì una meteora all’interno del panorama letterario italiano. Una luce difficilmente classificabile, irriducibile a un qualche schema e linea predefinita, eppur così nuova e antica. Come nuova e antica è sempre stata la poesia del genio recanatese, costellata di interrogativi universali, eppur così concreti, così quotidiani, così esageratamente ricchi di suoni, colori, “cose” – in una parola – di “segni” che rimandano a un oltre misterioso.
Negli anni la critica ha provato più volte ad aggiustare la mira: prima declassando Leopardi ad adolescente assillato da domande puerili, poi provando a interpretarlo attraverso letture psicanalitiche (il rapporto difficile col padre Monaldo), poi esaltandolo come precursore dell’umanesimo risorgimentale e, infine, è l’ultimo tentativo in ordine di tempo, come un nichilista ante litteram. Volendo incasellarlo in una di queste letture, il Leopardi di Martone risponde all’ultimo stereotipo, senza però che vengano trascurate le precedenti definizioni. In più, crepi l’avarizia, non mancano ammiccamenti a sfondo sessuale e battute sul bigottismo cattolico, che sono i due cliché senza i quali negli anni Duemila nessuna pellicola è considerata degna di essere proiettata in Italia. Ma, al di là di tali constatazioni, il Leopardi di Martone è una figura monca: è il filosofo e pensatore, non il poeta. È l’autore delle Operette morali, non dei canti.
Accade così che il nostro Giacomo si rintani sull’ermo colle a recitare l’Infinito (ma per sovvenir l’eterno occorre per forza far le espressioni beote di Elio Germano?), bisticci col padre-padrone capace di amarlo ma non di comprenderlo, s’ingozzi di gelato per addolcire i suoi demoni, spii di sott’occhio il compagno Ranieri mentre se ne esce dalla vasca da bagno. Ma, fondamentalmente, il Leopardi di Martone si crogiola, delizia e bea nella sua inquieta malinconia. E quando ha terminato di crogiolarsi, ricomincia. Una malinconia così pervicacemente ostentata da venire a noia. A noia dello spettatore, s’intende.
Niente. Solo lunghi, interminabili, snervanti silenzi. E sono silenzi, si conceda il gioco di parole, “muti”. Non s’aprono verso nulla: né verso «desideri infiniti», né verso «visioni altere», né verso «immensi pensieri». Sono silenzi “chiusi”, agorafobici, mozzafiato. Solo banali, insulsi, insipidi “silenzi silenziosi”. Non v’è nulla in essi, se non la goduria del regista nel mostrarci come possa rinchiudersi un’anima su se stessa. Ma senza dirci perché, cosa la tormenti, quale rabbia la consumi, quale arcano la arrovelli. Non v’è nulla nel nulla. Sappiate che la natura è matrigna e che Giacomo era goloso di gelato. E sarebbe questo, Leopardi?
Così, alla fine, anziché avere un giovane favoloso, abbiamo solo un paguro piagnucoloso. Davvero poco, troppo poco per un film che non ha nemmeno la dignità di una virile bestemmia urlata come Dio comanda.