L’Unione di Prodi il partito unico di uno strano regime, invisibile quando si discute, ferreo quando si vota

Silvio Berlusconi non è riuscito a trovare i consensi necessari a far cadere il governo Prodi, anche se i parlamentari che egli aveva contattato erano d’accordo con lui sulle tesi politiche. Evidentemente, dunque, costoro non erano liberi di votare secondo coscienza, perché eletti in questo partito unico e plurimo che è l’attuale maggioranza. Quest’ultima, infatti, rimane politicamente una, proprio grazie alle molteplicità, che cedono la loro diversità al momento del voto: le differenze politiche non sono più differenze parlamentari. Ciò significa che è in gioco la nostra libertà, che il nostro paese ha una democrazia apparente e un regime reale. È la forma più singolare di regime, che appare debole quando si discute e forte quando si vota.
Questo regime, invisibile ma percebile, ha radici antiche, nasce da quella epurazione violenta della democrazia italiana che ha condotto alla dissoluzione di esperienze determinanti per la storia civile di questo paese, come la Democrazia cristiana, il Partito socialista e il Partito liberale. L’unica organizzazione politica lasciata in piedi da questa epurazione è stata quella comunista, che aveva cambiato il nome ma conservato la cosa. Non a caso come leader politico della maggioranza è stato scelto Romano Prodi, un cattolico che viene dalla tradizione dossettiana, quindi per principio favorevole a fare dei diessini il proprio riferimento organizzativo e politico. Che cosa vuole Romano Prodi? Rendere politicamente impotente l’area di riferimento democristiana e socialista, che ora si esprime in Berlusconi e nei partiti a lui alleati. Di fatto questo significa usare il voto del Sud contro il voto del Nord, perché oggi come ieri il Meridione dipende dalla spesa pubblica, anche se ora, con la fine dei sussidi europei, i benefici di questa scelta si sono molto ridotti.
Prodi, già dirigente dell’Iri, utilizza personale amministrativo che viene da quella esperienza, e da lì ha preso il retroterra di conoscenze e di contatti a tutti i livelli di cui si serve. Così può essere il decisore in una coalizione in cui i partiti non vogliono decidere in nome proprio e intendono lasciare a lui soltanto la rappresentanza del governo.
Ma la maggioranza, come abbiamo visto, è sostanzialmente un partito unico. In questo vige la tradizione postcomunista aggiornata dai nuovi dirigenti come Massimo D’Alema, che hanno abbandonato la rivoluzione per concentrarsi sul potere e sull’arricchimento personali. La classe dirigente che esprime l’odierna maggioranza parlamentare, infatti, mira a mantenere le rendite politiche ed economiche di tutti i suoi componenti, confidando nel fatto che i Ds, che come organizzazione e come identità sono rimasti il solo partito sopravvissuto a Mani Pulite, mantengono le fila di una certa realtà di base. Realtà di base che però non è più nel partito, ma nelle istituzioni: i diessini e i democristiani hanno creato tante strutture che certo costituiscono un peso per la spesa pubblica, ma consentono ai politici della maggioranza di fare la propria attività di partito avendo come base gli enti pubblici, i sindacati e altre realtà finanziate dallo Stato.
È per questo che l’opposizione oggi gioca la carta di mantenere viva al proprio interno la differenza politica in un regime che nasconde la sua identità attraverso le sue differenze. Cattolici fedeli e non “adulti” hanno la loro speranza politica se rimane viva, in Italia, la lotta per la libertà a cui essi sono chiamati a partecipare.
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