La fine del mondo e noi
Oggi, 26 novembre, è l’ottantesimo anniversario della nascita di monsignor Luigi Negri (1941-2021). Pubblichiamo ampi stralci di una sua meditazione inedita tenuta in occasione di un ritiro di Avvento della Fraternità di Comunione e Liberazione il 15 novembre 2009 a Milano.
Grazia, libertà e storia
Che cos’è la fine del mondo? La fine del mondo coincide con la mia felicità. La fine del mondo, prima di essere un evento cosmologico, in cui si celebra la potenza di Dio che giudica il mondo, attraverso avvenimenti straordinari, è qualcosa d’altro: la fine del mondo vera è innanzitutto il cambiamento della vita dell’uomo.
Se crollassero i monti, se straripassero i laghi, se succedesse anche tutto quello che, nella meditazione accorata e profonda della Chiesa, è andato ad identificarsi con i segni che precedono la fine del mondo, nel senso della fine della storia, se anche succedesse tutto questo, ma l’uomo non fosse cambiato, mancherebbe qualcosa di fondamentale.
La potenza di Dio si manifesta nella fine del mondo, cioè nell’eschaton, nelle ultime cose, come la potenza di Cristo che cambia l’uomo e il mondo; la potenza di Cristo che accetta che la sua vita umana sia rigenerata nella risurrezione e offre questa vita umana rigenerata nella risurrezione, in dono gratuito, grazia, a tutti coloro che credono in Lui. Questa è la fine del mondo: la potenza di Dio che si manifesta. Ma dove si manifesta definitivamente la potenza di Dio? Nell’uomo nuovo che vive nel mondo.
La gloria di Dio è l’uomo nuovo che vive nel mondo, dice uno dei più grandi teologi della storia cristiana, sant’Ireneo di Lione: «Gloria Dei vivens homo». La gloria di Dio è un uomo nuovo che vive con una coscienza irresistibile e netta della sua origine, del suo destino; che vive il grande cammino verso la maturazione della sua intelligenza e del suo cuore in modo tale da poter pensare come Dio e vivere come Dio. «Siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). […]
La creatura nuova nasce dall’intervento della grazia. La grazia è una cosa assolutamente inconcepibile e, per certi aspetti, inspiegabile dall’intelligenza umana. Che Dio si sia donato in Cristo all’uomo è il mistero più profondo dell’Essere e della storia, molto più profondo dell’altro grande mistero, quello della creazione, in cui Dio si è donato, è uscito fuori di sé in modo tale che questo dono significasse la vita dell’uomo e, attorno a lui come contesto in cui è chiamato a vivere, il cosmo, l’universo.
Creazione e redenzione sono la grazia di Dio. Ma questa grazia di Dio, che ci investe, si realizza pienamente e diventa effettivamente fattore di cambiamento solo nel contesto della libertà. Grazia e libertà sono il vanto del vero cattolicesimo. Perché la grazia esprime tutta l’assoluta gratuità dell’iniziativa di Dio, senza della quale noi non possiamo far nulla, non esisteremmo e non potremmo far nulla. Senza la grazia di Dio che è Cristo, noi non potremmo esistere ed esistendo non potremmo essere salvati; ma questa grazia diviene matura, quindi l’avvenimento della signoria di Cristo sul mondo accade nella mia vita, perché la mia libertà accetta di implicarsi con questa grazia; accetta di prendere sul serio la grazia, accetta di sentirsi definita dalla grazia; accetta di muoversi all’interno della grazia in un grande abbraccio che non mi stritola violentemente, ma mi coinvolge affettuosamente e, coinvolgendomi affettuosamente, chiama in causa la mia libertà. È il Signore Gesù Cristo che con la sua grazia circonda la mia vita di questo abbraccio straordinario e definitivo; ma questo abbraccio si esprime come valorizzazione della libertà.
La liturgia penetra nella profondità di questo mistero con una preghiera semplice, ma profondissima. Parla di un misterioso scambio fra la Sua forza e la nostra debolezza. La fine del mondo avviene in me e, attraverso di me, è testimoniata in questo tempo, perché la Sua grazia viene accolta e corrisposta dalla mia libertà, in questo misterioso incontro tra la Sua potenza e la mia debolezza. Misterioso incontro che descrive l’aspetto più profondo della vita.
La vita cristiana è questo continuo e progressivo incontro nel tempo, nello spazio, nelle circostanze, nelle vicende, nelle bellezze e nelle difficoltà della vita, nell’apertura dell’intelligenza e del cuore, come nella meschinità della vita; è questo misterioso dialogo che continua, è questo misterioso incontro che fa sì che il tempo della nostra vita mortale serva alla nascita del nostro corpo immortale.
Si è seminato un corpo corruttibile, nasce un corpo immortale, dice san Paolo. Ma il seminare il corpo corruttibile e la nascita del corpo immortale in cui si manifesta definitivamente la potenza di Dio, cioè la fine del mondo, è un cammino, è una storia. La grazia valorizza la libertà e, quindi, valorizza la storia, perché la libertà si vive nella storia. La libertà si vive nel tempo e nello spazio, si vive nella giovinezza e nella maturità, si vive nella buona e nella cattiva sorte, si vive nelle circostanze concrete della vita. Allora l’eterno si costruisce nel tempo. Non perché l’uomo possa costruire da sé l’eterno, ma perché Dio e l’uomo costruiscono l’eterno nello spazio limitato dell’esistenza in questo misterioso incontro fra la potenza di Dio e la nostra debolezza.
Io non so se – permettetemi questa confidenza – valga la pena di essere felici sulla terra per qualche cosa di diverso da questo. Io non so se si possa applicare la parola felicità a qualsiasi altra cosa: la donna più bella di questo mondo, la più grande quantità di soldi possibile in questo mondo, il riconoscimento delle nostre capacità intellettuali e morali, la nostra carriera, eccetera. La pienezza dell’essere è nel mio cambiare giorno dopo giorno, perché giorno dopo giorno la mia libertà si apre al riconoscimento di Cristo e Cristo, riconosciuto ed amato, entra nella mia vita come un lievito di umanità nuova, come un lievito che sommuove tutta la pasta e gli dà una forma diversa dall’aridità e dalla fissità dell’inizio.
È come un principio di vita nuova che fiorisce irresistibilmente. È seminato dentro di noi un frutto di pace, dice san Giacomo, che darà il frutto a suo tempo, non meccanicamente, non artificiosamente, non fatalisticamente, ma solo se ogni giorno la nostra vita è vissuta come questo continuo incontro fra la potenza di Dio e la nostra debolezza. […]
Il vero ostacolo è un errore di metodo, non un’incoerenza
Tuttavia perché sembra che questa creatura nuova non nasca mai? Perché questa promessa di cambiamento totale non è al centro della vita, della coscienza, del cuore e dell’amore e quindi non costituisce la grande vicenda della vita, il grande lavoro dell’esistenza? Perché la fede, come riconoscimento di Cristo, come conoscenza di Dio, e cambiamento di noi in Lui, diventa marginale nella nostra vita? Perché la nostra vita è occupata da tante altre questioni che non sono paragonabili con questa promessa nel cui accadimento speriamo, del cui accadimento siamo certi.
Perché sembra che questa creatura nuova non nasca mai? Questa creatura nuova non nasce mai, non per un problema di natura morale. Questa è la grande liberazione dal moralismo che per noi ha significato l’incontro con la straordinaria personalità di don Giussani. La nuova creatura in me non è ritardata dal limite morale, è forse resa più faticosa, ma non è messa in scacco dalla mia immoralità. La nuova creatura non nasce o non nasce adeguatamente perché non si vive un metodo giusto di incontro con il Signore, di riconoscimento di Lui, di partecipazione vera alla sua vita.
La creatura non nasce per un errore di impostazione; non per un’incoerenza, non a causa dell’incoerenza che rende più faticoso il cammino; il male che si fa, diceva Anna Vercors ne L’annuncio a Maria, ti fa mangiare tristemente il tuo pane, la sera. Ma la potenza di Dio non è fermata dal limite che deriva dalla nostra debolezza. Dio salva i deboli, salva coloro che fanno fatica ad essere coerenti, come mostra Gesù di fronte all’adultera: «“Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Gv 8,10-11). Ma allora perché non avviene la creatura nuova? Non avviene la creatura nuova perché noi sbagliamo il metodo: questa è la risposta.
Non avviene la creatura nuova, non perché tu sei pieno di peccati, ma perché sbagli il metodo. Chiedete male, non chiedete o chiedete male, dice san Paolo ai primi cristiani. Pertanto, occorre concentrare la nostra attenzione sul metodo, sulla fede come metodo di conoscenza, perché, se la fede in Cristo diventa il metodo della conoscenza (sappiate bene fratelli che conoscenza per la tradizione ebraico-cristiana vuol dire amore, non si conosce se non ciò che si ama), allora è un cammino nella conoscenza, è un cammino esatto nella conoscenza, che deve essere continuamente recuperato e continuamente perseguito. […]
Tre fattori fondamentali
Innanzitutto è il riconoscimento di un fatto obiettivo. «Nell’anno decimo quinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea…» (Lc 3,1) è venuto il Figlio di Dio sulla terra e la sua esistenza storica è assolutamente innegabile. La madre, il luogo di nascita e il mestiere che faceva sono tutti elementi storici della sua esistenza. Un evento obiettivo per quelli che lo hanno incontrato, così come è obiettivo per la nostra vita, perché andavamo per la nostra strada e ci siamo imbattuti in una comunità, una compagnia, che ci ha detto: “il Signore è qui”.
Quindi il procedimento che mette in moto l’energia di Dio che incontra la mia libertà e mi cambia, non nasce da un’idea, da un’esigenza, fosse anche religiosa, ma dall’evento che si è fatto storia e che si fa incontro. L’evento di Cristo si fa storia, si fa incontro e quindi occorre partire dal riconoscimento di un fatto obiettivo, originalmente indipendente dalla persona che compie l’esperienza. È l’incontro con qualcosa di oggettivo.
Sua madre ha avuto per tutta la sua vita davanti a sé un fatto obiettivo, che non era riconducibile a quello che lei pensava, a quello che lei capiva, a quello che lei sentiva. Ella lo seguiva ogni giorno, superando tutti i suoi sentimenti e tutti i suoi presentimenti, per affermare la sua Presenza. La vita nuova scaturisce in noi a partire da un fatto accaduto e riconosciuto.
Non solo si deve partire dal fatto, ma occorre che il fatto sia riconosciuto come carico di una promessa, di un significato che trascende infinitamente tutte le mie attese, tutte le mie previsioni, tutte le mie possibilità di comprensione. Un fatto straordinario, indipendente da me, che porta nella mia vita una promessa di compimento che va infinitamente al di là di tutte le cose migliori che io potevo pensare di me e della realtà.
Allora, impegnarsi con il Signore, impegnarsi con questo avvenimento, vuol dire sorprendersi dentro una corrispondenza imprevista, inaspettata, assolutamente inconcepibile, eppure reale. Questa persona è più me di me; questa persona mi conosce più di quanto non mi conosca io; questa persona, come diceva Giovanni Paolo II in modo indimenticabile nei passi bellissimi del numero 10 della Redemptor hominis, rivela all’uomo tutta la verità sull’uomo. Un fatto che contiene una promessa che va al di là di ogni attesa; io, che registro questa promessa, che va al di là di ogni attesa, non posso non riconoscere che è la cosa che aspettavo da sempre. Una corrispondenza impensabile: sono perciò pienamente affermato nella mia domanda di senso, nella mia domanda di verità, di bellezza, di bene, di giustizia.
L’importanza della verifica
Tuttavia, bisogna riconoscere che noi non dobbiamo fermarci semplicemente a questi tre fattori: la presenza del fatto obiettivo di Cristo, l’intensità di promessa che mette dentro la nostra vita, la percezione di una corrispondenza straordinaria. Io vengo chiamato in causa perché dico: “Questo mi corrisponde”. Nel momento in cui dico “questo mi corrisponde”, sono chiamato ad assumermi tutta la responsabilità su di me e su di Lui.
«Dove andremo Signore? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,65). È la prima formulazione, la più semplice, la più elementare nella vita cristiana, che è fiorita sulla bocca di uno che non so se fosse particolarmente intelligente, ma che certamente aveva il senso profondo della realtà. «Dove andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita eterna». Occorre registrare questa corrispondenza e lavorare su questa corrispondenza.
La fede è un fatto vitale, la fede è il continuo incontro tra la presenza di Cristo e la mia umanità con tutti i suoi fattori, con tutte le sue condizioni e con tutti i suoi condizionamenti. Sono chiamato a giocare la mia umanità nella presenza di Cristo: questa è la fede, perciò se non c’è l’umanità, non può esserci fede.
Se invece di giocare la tua umanità giochi il tuo sentimento di Dio, il tuo sentimento di Cristo, giochi le tue idee su Cristo, non è fede, è astrazione, è ideologia. Occorre giocare la propria vita di fronte al Signore presente, che parla con la stessa carica e con la stessa concretezza con cui ha parlato ai primi. E questa concretezza e questa storicità è possibile perché il Signore ti incontra nella Chiesa e attraverso la Chiesa; tu devi perciò giocare la tua vita umana; se manca l’umano non c’è la fede.
Ma se c’è l’umano e non c’è il riconoscimento di Cristo, non c’è la fede lo stesso, non esiste l’incontro tra la sua potenza, la sua ricchezza e la nostra povertà. L’espressione di Giussani, giustamente richiamata in questo periodo, è estremamente densa e precisa: la vita di fede è una verifica; si è chiamati a verificare che la sua Presenza è conveniente. La sua Presenza è conveniente perché illumina la nostra esistenza, in tutti i suoi particolari, di una luce che altrimenti non ci sarebbe; dà al mio cuore una forza per affrontare la vita che non potrei darmi assolutamente.
Dunque la fede è crescere quotidianamente in questa verifica. Affrontare la nostra vita nella fede o offrire la nostra vita umana alla fede in Gesù Cristo rende la vita sempre più irresistibilmente piena. Ecco perché nasce la creatura nuova. La creatura nuova nasce nella verifica.
Perché non ve ne siete andati via tutti voi che siete qui? Perché, certamente non in modo continuativo e sistematico, ma in certi momenti della vita avete dovuto riconoscere che la creatura nuova si stava formando. Che c’era un’umanità diversa, che c’era una pienezza diversa, che c’era un’affezione alla propria umanità e all’umanità degli altri, che c’era una chiarezza di giudizio, che c’era un’energia di azione; insomma il nuovo scoppiava da tutte le parti.
Il nuovo è scoppiato da tutte le parti nella capacità di far fronte alle grandi sfide che abbiamo ricevuto. E Dio conosce le sfide che tutti voi, che siete qui che mi ascoltate, avete affrontato nella vostra vita. Anche sfide terribili, umanamente parlando, incomprensibili e ingiuste. Ma se siete ancora qui, è perché nessuna di queste sfide ha disintegrato la novità della creatura nuova. Anzi, misteriosamente, il limite, la fatica, il dolore possono essere stati momenti privilegiati di questa verifica positiva: la creatura nuova, cioè la fine del mondo in me, l’accadimento del suo Regno in me. Perché se il suo Regno non accade in me, non esiste. […]
C’è un solo spazio dove si incontra Dio e si verifica se non ci inganna: la nostra vita. C’è un unico spazio che l’uomo ha a disposizione per verificarlo: il suo mangiare e il suo bere, il suo vegliare o il suo dormire, il suo vivere e il suo morire. Esattamente queste sono le dimensioni che il Santo Evangelo chiama in causa come luoghi dove sperimentare la potenza di Dio. Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fatela per Cristo.
La creatura nuova è dunque lì, come un seme gettato in un terreno buono, seminata in un terreno che è tutto costituito e determinato dalla nostra libertà, come capacità di risposta, come capacità di dirsi, certamente condizionato anche dalla possibilità del nostro rifiuto; ma la partita si gioca a questo livello, si gioca a livello della vita concreta, perché ogni giorno della nostra vita concreta è un giorno in cui noi dobbiamo decidere, se la fede vale più della vita o se la vita nostra vale più della fede.
Il Prefazio VI del messale, che usavo tutte le volte che ho detto Messa con monsignor Giussani, dice a un certo punto – cito a memoria, non letteralmente –: ogni giorno del nostro pellegrinaggio sulla terra è un segno sempre nuovo della tua presenza fra di noi e l’inizio della vita immortale nella nostra esistenza. La creatura nuova nasce nella storia, matura nella storia, si realizza nella storia, perché la nostra libertà lavora seriamente su di essa. Questa è la fede: conoscere Dio e colui che ha mandato, Gesù Cristo. Conoscere vuol dire implicare tutta la vita. Qual è allora il contenuto fondamentale del lavoro che spetta all’uomo? È la sua vita. […]
L’«inimicus homo»
In questa vicenda di alterazione del metodo, di un metodo sbagliato, in questa possibile alterazione dell’intelligenza, di una concezione della fede sbagliata, ridotta, non siamo in gioco solo Cristo e noi. Siamo in gioco certamente Cristo e noi, ma non soltanto noi. Accanto a noi e contro Cristo agisce nel mondo il nemico: inimicus homo (vedi Mt 13).
Noi non possiamo avere coscienza del cammino che ci aspetta, delle responsabilità che ci assumiamo, della fatica che facciamo, se non diamo finalmente e in modo maturo spazio a Dio nel nostro pensiero e, allo stesso tempo, se non consideriamo il fatto che c’è qualcuno che combatte contro di noi, accanto a noi, ma contro di noi, perché la nostra fede non possa vivere in pienezza. Si chiama diavolo, si chiama demonio.
Uno dei segni più impressionanti di quella profonda alterazione della fede come intelligenza, che è in atto nella vita cristiana, è il fatto che del demonio non si parla mai. Il demonio non è mai indicato come la fonte, misteriosa e potentissima, di questo attacco a Cristo e alla Chiesa. Un protagonismo nel male che sfiora la potenza di Dio, che cerca di investire la potenza di Dio, perché il demonio è l’essere più forte e più intelligente del mondo, subito sotto Dio.
Allora occorre dare spazio, direi anche intellettualmente, come fattore di conoscenza, al fatto che, nella grande battaglia perché la nuova creatura si affermi in noi, non ci siamo soltanto Cristo e noi, ma anche il demonio, che cerca di rendere vano, vuoto, vacuo, inconsistente questo cammino della fede.
La modalità con cui il demonio esercita questo suo tentativo terribile, continuamente presente, di escludere Cristo dalla vita e dalla società serve per negare la salvezza dell’uomo, per rendere l’uomo assolutamente impotente e manipolato dalle potenze, che san Paolo chiamava della terra e dell’aria, serve cioè a lasciare l’uomo in balìa del potere diabolico nelle varie forme con le quali storicamente si realizza.
In questa battaglia noi dobbiamo veramente riprendere la grande visione dell’escatologia cristiana. Il demonio è presente, è attivo e questa sua presenza deve essere riconosciuta e smascherata. Soprattutto occorre quella domanda insistente allo Spirito del Signore perché ci liberi dal male. Quando dite il Padre nostro, quando dite «liberaci dal male» cosa pensate? Quando non lo diciamo per abitudine, implichiamo nel male, nell’espressione male, tutti i nostri piccoli mali della vita quotidiana, tutte le difficoltà; nessuno di noi capisce che dire a Dio «liberaci dal male» vuol dire: liberaci dalla potenza del demonio, liberaci da questa straordinaria volontà di negazione di Dio e dell’uomo, che ormai domina incontrastata per esempio attraverso i mezzi della comunicazione sociale, che realmente demoliscono l’immagine della fede, imponendo surrettiziamente una concezione assolutamente ateistica dell’uomo, dei rapporti sociali, dell’amore, della vita, della vecchiaia, della giovinezza e di tutto il resto.
L’Avvento è dominato dalla certezza e dalla domanda
Il lavoro sulla fede è un lavoro che deve essere sostenuto, che deve essere espressione di intelligenza; conoscere i fattori che sono in gioco in questa battaglia è essenziale. È un altro aspetto in cui si rischia di lavorare male.
Fondamentale è la percezione e la non chiarezza circa il fatto che nella grande battaglia della vita (la Bibbia dice che la vita dell’uomo è una battaglia, «militia est vita hominis» [Gb 7,1]), nella grande battaglia della vita che è la grande battaglia per la fede, noi incontriamo dei fattori che sono più grandi di noi e dai quali dobbiamo chiedere alla misericordia di Dio di liberarci. Per questo l’Avvento, soprattutto l’Avvento ambrosiano, è tutto dominato dalla certezza e dalla domanda. La certezza della fine del mondo, la certezza del compimento della gloria di Dio nella gloria di Cristo e della gloria di Cristo nella gloria degli uomini, questa certezza che percorre tutta la liturgia e che diventa addirittura palpabile nella grande liturgia della settimana che precede il Natale, con la centralità della Madonna (nella quale si compie carnalmente il mistero della Potenza di Dio, e quindi da lì comincia quella vita nuova di Cristo in lei e di lei che risponde a Cristo) che è l’ideale della vita cristiana di ogni uomo, perché la Madonna è la sintesi esistenziale del cristianesimo.
Tuttavia, se in questa liturgia vive questo potente movimento del riconoscimento della definitività di Cristo, la liturgia dell’Avvento è anche consapevole della nostra povertà, della nostra capacità di tradire la concezione giusta della vita. La liturgia è consapevole delle potenze demoniache che tentano di scardinare questo dialogo ininterrotto tra Cristo e la nostra vita. Per questo la liturgia dell’Avvento è la liturgia della certezza e della domanda.
La liturgia ambrosiana è certamente, in modo mirabile, incomparabile con la liturgia romana, la liturgia della certezza della fine del mondo: Cristo è il Trionfatore, il Giudice che torna, è una certezza assoluta che settimana dopo settimana si andrà approfondendo con temi, forme, immagini, assolutamente sempre diverse, e sempre più convergenti; ma dall’altra vi è la percezione che noi possiamo non capire, non volere e possiamo tradire. E per questo la consapevolezza del nostro limite diventa la consapevolezza che soltanto chiamando in causa ogni momento la grazia, noi possiamo essere salvi. La preghiera è una domanda insistente a Cristo perché sia presente, quando è presente realmente nella Eucaristia e quando è presente nel mistero della Chiesa ed è invocato da noi nelle varie forme della preghiera liturgica o della preghiera personale.
Questa creatura nuova, questa fine del mondo in me, questo compimento della gloria di Cristo in me, che matura nel tempo, per cui ogni giorno del nostro pellegrinaggio sulla terra è un dono sempre nuovo del Suo amore per noi, è una chiamata a partecipare sempre più profondamente della risurrezione.
Questa positività che cresce, che matura, che rende utile l’esistenza, per cui neanche un capello del vostro capo, come sentiremo nel Vangelo di oggi, cadrà inutilmente, neanche una lacrima cadrà invano dai vostri occhi, ha un grande fattore dinamico di realizzazione che si chiama missione.
Il Vangelo di oggi descrive tutto il caos della fine del mondo, che è il caos della vita di tutti i giorni: quelli che il Signore Gesù Cristo indicava come i sintomi della fine del mondo, non sono gli stessi che possiamo ritrovare nella vita di tutti i giorni, nel disastro della vita di tutti i giorni? Come a dire che la vera fine del mondo si presenta ogni giorno all’uomo che vive la fede.
La venuta di Cristo, la venuta tutti i giorni di Cristo nella mia vita è il senso profondo dell’essere venuto una volta, e del tornare, perché se è venuto una volta e tornerà, ma in mezzo la mia vita non lo ospita, cosa è venuto a fare? Per questo san Carlo Borromeo, solo lui, parla di una terza venuta, nel concreto della vita quotidiana. Perché vivere la vita quotidiana nella certezza della fede, della speranza, della carità, apre la vita ogni giorno al suo venire e Cristo viene a noi ogni giorno.
La missione: nostra responsabilità nella vita della Chiesa
Tutto questo movimento si chiama missione; tutto quello che succede è dato all’uomo come opportunità per rendere testimonianza; in modo semplice, potrei dire sbrigativo, molto essenziale, il Signore Gesù Cristo ha indicato il senso della vita nella storia: la vita ci è data per essere testimoni. Perciò è la missione il grande cammino che irrobustisce la fede; la fede si irrobustisce donandola, diceva il grande Giovanni Paolo II nella sua enciclica Redemptoris missio.
Lo stesso muoveva noi ragazzi nell’andare in “caritativa” nella Bassa ogni quindici giorni, talora anche tutte le settimane. Perché ci andavamo? Perché Giussani ci aveva detto che bisognava fare per capire: le cose più grandi della vita non si capiscono se non si vivono, se non si fanno. La missione allora è questo fare che rende sempre più chiaro Cristo a me, e che mi mette in condizione di testimoniarlo attraverso la mia vita quotidiana. Per questo la missione è una responsabilità inderogabile della Chiesa, cioè di ogni cristiano.
Ma la missione del cristiano è la missione della vita concreta e ordinaria dell’esistenza, vissuta nella certezza che il Signore presente trasforma la mia vita con me, e la trasforma tanto più profondamente, quanto più la mia vita è vissuta non per affermare me stesso, le mie misure, i miei progetti, ma è vissuta per affermare Lui che è morto ed è risorto per noi.
La parola missione è ineludibile. Non si può pensare a un cammino cristiano senza che la missione costituisca la verifica suprema. Ricordo molto bene tutte le volte che, intervenendo, qualche volta un po’ stizzito, Giussani chiariva che per noi la missione non è il termine, ma il metodo dell’educazione. Non è che si fa la missione alla fine, quando si è già maturati come intelligenza, come volontà; la missione rende più vera, più matura, più consistente la nostra esperienza. Perciò non è pensabile, non è possibile una vita cristiana che non sia animata da una volontà di comunicazione di Cristo agli uomini attraverso le forme della vita quotidiana. […]
Sulla missione opera il massimo di confusione nella vita cristiana. Sembra che la missione impedisca il dialogo. Per dialogare con gli uomini bisogna mettere un po’ fra parentesi, se non totalmente, almeno un po’, la nostra identità. Missione o dialogo. Credo che molto contenuto del lavoro e delle riflessioni del mondo ecclesiastico, anche ad alti livelli, sia viziato da questa presunzione. La tradizione cristiana, di tutti i tempi, dagli Atti degli Apostoli fino al magistero dell’attuale pontefice, segue un’altra logica: missione e dialogo. È la missione, cioè la posizione della nostra identità nel mondo, ricca, piena, che diventa capacità di dialogo. È nella misura in cui pongo la mia identità che sono capace di aprirmi all’identità dell’altro. […]
La vera riforma della Chiesa, quella che il pensiero medioevale diceva essere necessaria ad ogni generazione, Ecclesia semper reformanda, questa permanente riforma della Chiesa è legata alla verità della missione del popolo cristiano. Voi avete una grande responsabilità perché la Chiesa viva più positivamente di come vive adesso. È importante che non vi isoliate da essa, tronfi del vostro benessere che ricevete dal Movimento; o che non ne discutiate da lontano, come di una cosa che non vi interessa, magari ridendo dei suoi limiti, dei suoi difetti e delle sue povertà, come se non fossero i limiti, i difetti e le povertà della nostra madre.
Siate dunque responsabili della vostra vita come missione; quanto più sarete responsabili della vostra vita come missione, farete il bene della vostra vita e quindi comincerete ad entrare nella gloria del Signore, già su questa terra. Non solo entrerete, ogni giorno di più, nella creatura nuova che il Battesimo vi ha già resi seminalmente, potenzialmente, ma farete il bene della Chiesa. E fare il bene della Chiesa vuol dire fare l’unico bene possibile per gli uomini. Perché se la Chiesa è viva, libera e intensa, l’umanità ne riceve, come è successo in vari momenti della storia, un grande influsso positivo.
Diceva sant’Agostino, e con questa citazione concludo, mettendo quindi il mio dire su buone spalle: «I pastori sono morti, ma le pecore sono al sicuro poiché il Signore vive. Com’è vero che io vivo, dice il Signore Dio. Quali sono i pastori morti? Quelli che cercano gli interessi propri e non quelli di Gesù. Ma, allora, ci saranno anche (e li si dovranno anche incontrare!) dei pastori che, dimenticando gli interessi propri, cercheranno quelli di Gesù Cristo? Senz’altro!» (Discorso 46, I Pastori).
Il Signore provvede alla sua Chiesa come vuole, anche in modo che ci sembra, qualche volta, incomprensibile. I pastori veri non verranno meno, il popolo cristiano non sarà abbandonato a se stesso, certamente. Ma il pastore è ognuno di voi, ognuno di voi che cerca di vivere la propria vita, non per se stessa, ma per affermare in maniera limpida e decisa che il Signore è veramente risorto. La nostra vita vive in una conoscenza sempre più profonda del Santo di Dio, che non è né solo prima della storia, né solo oltre la storia. È prima della storia, generato, non creato. È fuori dalla storia e verrà come Signore e Giudice, ma è anche dentro la storia, come crocifisso e risorto, e noi siamo chiamati a sperimentare che il suo essere vicino a noi, nella sua Chiesa, come crocifisso e risorto, celebra la sua gloria nel cambiamento della nostra vita quotidiana.
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