Luca Ricolfi

Di Rodolfo Casadei
01 Marzo 2007
«Infrastrutture, concorrenza, lavoro, legalità, autonomie, pensioni. Senza riforme l'Italia affonda, ma non sarà questa sorda classe politica a farle»

Luca Ricolfi, sociologo presso l’università di Torino ed editorialista della Stampa, si è segnalato all’attenzione dei media nel 2005 con due testi che hanno fatto scalpore, soprattutto perché scritti a partire da una posizione di simpatia politica per il centrosinistra. In Dossier Italia ha analizzato, punto per punto e nella maniera più obiettiva possibile, il grado di attuazione del “Contratto con gli italiani” di Silvio Berlusconi, lasciando intendere che l’allora presidente del Consiglio avesse mantenuto fede alle proprie promesse ben più di quanto l’opinione pubblica non fosse stata addestrata a credere. In Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori, invece, Ricolfi ha spiegato come il complesso di superiorità intellettuale e morale tipico degli esponenti di quell’area fosse la causa della diffidenza di importanti quote dell’elettorato italiano nei loro confronti. Ma Luca Ricolfi è anche e forse soprattutto il fondatore dell’Osservatorio del Nord Ovest, organismo di ricerca che ha prodotto già tre Rapporti sul cambiamento sociale dell’Italia sotto la sua direzione. L’ultimo è apparso in gennaio presso l’editrice Guerini e associati e reca l’allarmante titolo Le tre società. È ancora possibile salvare l’unità dell’Italia?
Professor Ricolfi, le tre società compresenti in Italia che lei descrive nel terzo Rapporto sul cambiamento sociale – quella dei garantiti, quella di chi è esposto al rischio e alla competitività del mercato e quella della criminalità che controlla economia e territorio nel Sud – esistono e convivono almeno dal 1968. Che cosa le fa pensare che in un futuro prossimo si separeranno traumaticamente?
Veramente l’espansione e la cristallizzazione di una società del rischio a me pare un po’ successiva al 1968: risale grosso modo agli anni Ottanta, quando si affermò il modello “small is beautiful”. Le altre due società – quella delle garanzie e quella della forza – erano invece già presenti e consolidate negli anni Cinquanta e Sessanta. Quanto a una futura separazione traumatica, io non prevedo affatto che si verificherà effettivamente, ma che le spinte a compierla si faranno sempre più forti, e assumeranno una impropria coloritura territoriale: la società del rischio è diffusa in tutta Italia, anche nel Mezzogiorno (specie nelle quattro regioni non controllate dalla criminalità organizzata), ma solo in alcune aree del Nord raggiunge un grado di concentrazione sufficiente. In queste regioni il gap fra il prelievo fiscale e la qualità di servizi e infrastrutture ha raggiunto livelli difficilmente tollerabili, e potrebbe quindi dar luogo a spinte separatiste e a movimenti autonomistici più ampi di quello rappresentato dalla Lega (una tentazione di cui Massimo Cacciari è forse l’incarnazione più antica ed evidente).
La tesi forte del rapporto è che sia la sinistra che la destra, lungi dal contrapporsi, quando sono al governo fanno più o meno le stesse politiche stataliste di aumento della spesa pubblica, conferma o estensione delle tutele dei tutelati e sostegno solo a parole dell’Italia che compete sul mercato, che è poi quella che permette alle altre Italie di esistere. Perché quella parte del paese che rischia non riesce a trovare una rappresentanza politica?
Io vedo soprattutto due ragioni, una di tipo strutturale e l’altra di tipo politico. La ragione strutturale è che i protagonisti della società del rischio sono dispersi, atomizzati, e hanno anche alcuni importanti interessi in conflitto reciproco (si pensi ai lavoratori in nero e ai loro datori di lavoro). La ragione politica è che sindacati e Confindustria hanno da molti anni scelto di privilegiare la concertazione con lo Stato (per ottenere benefici sovente impropri, e comunque distorsivi del mercato) a scapito della modernizzazione delle relazioni industriali (per produrre più reddito).
Pierluigi Bersani, da ministro per lo Sviluppo economico, aveva avviato il tentativo di attuare alcune liberalizzazioni. In Lombardia il governo Formigoni ha introdotto il buono scuola e il buono formativo. Qualche politico e qualche esperienza di governo che non si appiattiscono sulla gestione clientelare della spesa pubblica paiono esserci. O considera questo solo fumo negli occhi?
Io distinguerei. Le liberalizzazioni alla Bersani sono lodevoli ma timide e spesso mal congegnate sotto il profilo tecnico, nel senso che ci si preoccupa più di mediare con tutti che di studiare regole semplici, che poi possano funzionare davvero. Quanto alla politica locale io vedo che in tutte le amministrazioni, di qualsiasi territorio e di qualsiasi colore politico, l’imperativo categorico è assicurare poltrone-consulenze-gettoni a politici, clienti, amici degli amici. E questo persino negli organismi che dovrebbero controllare la qualità della spesa, il rispetto delle regole, l’eliminazione degli sprechi. Naturalmente ci sono anche situazioni in cui qualcosina di buono si riesce a fare, ma mi sembrano decisamente poche e limitate.
Nel libro lei stende l’elenco sintetico ma completo delle cose che un governo, di destra o di sinistra, dovrebbe fare per salvare l’unità dell’Italia: «Ampliare le infrastrutture, liberalizzare i mercati, sfoltire la giungla legislativa, ristabilire la legalità, responsabilizzare gli enti locali, premiare il merito a scuola e sul lavoro, licenziare i nullafacenti, alzare l’età pensionabile, limitare il precariato, decentrare la contrattazione, creare un moderno sistema di ammortizzatori sociali». È un programma che, se messo in atto, produrrebbe moti di piazza da parte degli esponenti della prima Italia e una stagione di autobombe come nella Palermo dei primi anni Novanta da parte della terza. Quale forza politica o coalizione di forze potrebbe assumersi una responsabilità del genere?
Nessuna, fra le attuali. Però a mio parere non si riflette abbastanza su due punti. Il primo lo hanno fatto notare di recente Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nel loro libro Goodbye Europa: le liberalizzazioni suscitano rivolte soprattutto se gli interessi colpiti hanno la sensazione di essere gli unici ad esserlo, mentre hanno molte più possibilità di successo se il governo le pianifica e le annuncia tutte insieme (una strategia che i due autori chiamano “big bang”). Il secondo punto è che la rivolta della piazza è anche un alibi delle attuali classi dirigenti. Certo, la gente non ha nessuna voglia di fare sacrifici e affrontare rischi se a chiederglielo è una classe politica che ha perso ogni credito, e si comporta come una casta di privilegiati chiusa in se stessa e sorda a qualsiasi istanza di moralizzazione e di autoriforma. Ma siamo sicuri che di fronte a un ceto politico che desse “il buon esempio”, e di fronte a un piano graduale, realistico e molto fermo di modernizzazione e scongelamento del sistema gli elettori reagirebbero con le manifestazioni di piazza?
Nel momento in cui discutiamo ancora non conosciamo se e come si sarà risolta la crisi del governo Prodi. Lei crede che questa possa rappresentare l’occasione per la creazione di un esecutivo di solidarietà nazionale animato dalle forze politiche o dai singoli parlamentari disponibili a realizzare il programma di cui sopra? Oppure dobbiamo pensare che si tratta di un programma che non si può realizzare stando dentro alla democrazia piena, e che solo un governo di emergenza, conseguenza di grandi traumi (attentati terroristici di marca brigatista, omicidi eccellenti da parte della mafia, moti separatisti in alcune aree del paese), potrebbe farsene carico?
Non credo in nessuna delle due ipotesi. Questa crisi di governo sarà usata dalle forze politiche, come quasi sempre è accaduto finora, per i soliti giochi di potere e di consenso. Ma ciò non significa che la soluzione possa essere un regresso della democrazia, sotto forma di un governo di emergenza che impone le riforme dall’alto: la gente non ci starebbe, e avrebbe tutte le ragioni di non starci. No, bisogna avere il coraggio di riconoscere che esistono anche problemi che non hanno soluzione, e che il rebus riformista è fra questi: scongelare l’Italia richiederebbe una vera classe dirigente, e questa o non c’è o non ha il coraggio di farsi avanti.
I suoi giudizi sulla Finanziaria 2007 sono particolarmente duri. Cos’è che non la convince di una manovra che è stata presentata come necessaria per il risanamento del bilancio e per il rilancio dello sviluppo? Quali sono, insomma, le scelte stataliste dell’Unione che accentuano la debolezza di quella che lei ha definito la “società del rischio” italiana, ostacolando ulteriormente lo sviluppo del paese?
È stato il governo stesso a riconoscere che la Finanziaria avrebbe frenato lo sviluppo (di circa 0,3 punti di Pil, ossia 4-5 miliardi di euro). Il mio giudizio negativo deriva da tre ordini di considerazioni distinte. Primo: l’aggiustamento per riportare il deficit è stato eccessivo, anche se non nella misura indicata dalla destra (non è vero che bastava una manovra di 10-15 miliardi, ma è vero che non era necessaria una da 35). Secondo: in nome della lotta all’evasione si è aumentato il carico burocratico per tutti, senza destinare i proventi della lotta all’evasione a una riduzione delle aliquote né oggi (2007) né domani (2008), come il ministro Padoa-Schioppa non si stanca di ripetere. Terzo: oltre ad aumentare la pressione fiscale, si è aumentata ulteriormente la spesa pubblica, senza avviare quegli interventi che il Dpef aveva indicato chiaramente anche se in modo (volutamente?) impreciso.
Cosa si dovrebbe fare, se mai è possibile fare qualcosa, per convincere l’Italia dei garantiti che così non si può andare avanti? È possibile convincere le “panzerdivisionen” della Cgil Pensionati e dei Sindacati della scuola che bisogna ridurre le garanzie e premiare di più il merito, l’iniziativa e la responsabilità individuale per dare un futuro al paese? Oppure l’unica strada è lo scontro frontale, cioè bisogna trovare una Thatcher del XXI secolo se non addirittura – lo diciamo come paradosso – un Pinochet?
A me non piace la parola “convincere”. Ai sindacati, alla Confindustria, ai cittadini si devono semplicemente ricordare le conseguenze delle rispettive azioni. Se non si toccano le pensioni, la pagheranno i nostri figli e nipoti. Se si vuole lavorare meno ore all’anno ci sarà anche meno da consumare. Se anziché far ripartire la produttività si preferisce chiedere soldi e sussidi allo Stato, il reddito crescerà un po’ più lentamente. Se si vogliono difendere tutti i privilegi dei dipendenti pubblici non si può poi pretendere che i servizi funzionino. Se si vuole dare una chance anche ai giovani delle famiglie più umili non si può continuare a mandarli in scuole in cui vengono promossi ma non imparano granché. Quanto alla Thatcher e a Pinochet il paragone non regge. Pinochet è un dittatore, che ha tolto la democrazia ai cileni, la Thatcher è una leader democraticamente eletta, che ha attuato politiche liberiste senza tirarsi indietro rispetto ad alcune resistenze della piazza. Il caso dell’Italia è ancora diverso. Può benissimo darsi che gli italiani preferiscano realmente vivere in un paese mamma, che finge di proteggere tutti, non pretende molto da nessuno, non tocca mai un diritto acquisito, lavora meno dei suoi concorrenti e (forse) assapora un po’ di più i piaceri della vita. Può darsi che gli italiani preferiscano un’argentinizzazione lenta, senza traumi e senza scosse, piuttosto che affrontare le sfide del mercato, della globalizzazione, delle nuove povertà. Questo non lo sappiamo, e sarebbe ora di cominciare a chiedercelo. Insomma, io sono contrarissimo a riforme imposte dall’alto, dico solo che una classe politica che non le fa dovrebbe anche spiegare ai cittadini le conseguenze di questo non fare. E soprattutto dovrebbe fare i conti con un dubbio atroce: che l’ostacolo più importante alle riforme non sia la resistenza degli interessi colpiti ma il discredito che la classe politica ha (giustamente) attirato su di sé.

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